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giovedì 23 giugno 2011

La lezione di R.P. ai giovani sardi, di Davide Zaru

Questa mattina ho preso un caffè con R.P., dottorando in diritto internazionale e attivista per i diritti umani, proveniente da un Paese dell’Africa sub-sahariana. Ci siamo visti ai Bagni di Paquis di Ginevra.

Piccola parentesi. I bagni di Paquis sono un posto straordinario. Si tratta di un’infrastruttura degli anni ’50 per la balneazione sul lago Lemano. Sono aperti tutto l’anno e gestititi da una cooperativa. D’inverno ospitano uno spazio benessere con sauna, hammam, bagni di vapore, massaggi, a costi di ingresso politici. D’estate, lo stabilimento offre cabine, sdrai, e i tradizionali servizi per gli amanti del lago. Tutto l’anno, la buvette dei bagni serve la sera la migliore fonduta di formaggio della città e a pranzo un piatto del giorno a circa nove euro (quasi un regalo, considerato che ieri ho speso il corrispondente di venti euro per un ingresso al cinema, e in prima fila non c’era Penelope Cruz, ma orde di bambini chiassosi). Lo stabilimento è semplice ma funzionale, si vanta di attrarre persone da “tutte le nicchie della società”, e soprattutto non si respira quell’aria da “voglio essere Miami” che caratterizza alcuni stabilimenti al Poetto.

Tornando a R.P., questa mattina mi ha regalato alcune perle di saggezza sulla diaspora dei giovani del Paese migrati all’estero, che a mio avviso, con tutti i distinguo, sono applicabili anche alla analoga situazione di tanti giovani europei.

R.P. lavora da una decina di anni a Ginevra con un’organizzazione non- governativa per la promozione dei diritti delle minoranze. Sua moglie, biologa, continua a vivere nella capitale, con i loro due figli. R.P. progettava di tornare al suo paese da diversi anni, una volta terminata la sua tesi di dottorato. Ora che la tesi è stata consegnata, il rimpatrio è imminente. Gli chiedo cosa voglia dire tornare dopo quindici anni di Europa. La risposta mi fulmina: “Io, una volta tornato, voglio fare politica attiva. Sono in una posizione di forza, perché ho idee e motivazione, ma ho maturato la mia esperienza senza mai chiedere niente a nessuno. Non devo nessun favore a politici locali, né al mio clan, né alle istituzioni”.

Ora, nella mia esperienza, è abbastanza comune sentire simili parole da parte di un giovane africano che vive in Europa, soprattutto se si considerano i privilegi della classe dirigente nell’Africa sub-sahariana: tutti vogliono fare politica, come da noi che tutti vogliono lavorare in Regione. Tuttavia, mi colpisce l’approccio: R.P. vuole tornare nel suo paese e contribuire al rinnovamento, il che significa intavolare una discussione critica con l’attuale classe dirigente. Ma non necessariamente scalzare questa classe dirigente: “Nel mio Paese la politica non si muove; l’attuale leadership governa praticamente da trent’anni giocando sull’equilibrio perfetto della rappresentazione di tutte le etnie; negli anni passati, ci sono stati tanti tentativi, invano, di promuovere un’opposizione. Buona parte delle persone attive in questo tentativo sono state rispettivamente integrate nella pubblica amministrazione, perché bisogna pur campare, o sono state convinte adoccuparsi del proprio orticello, piuttosto che della cosa pubblica. Quindi, la sola soluzione sostenibile è cercare di convincere l’attuale classe dirigente ad avviare una transizione”.

R.P. mi parla a lungo della diaspora dei giovani del suo Paese che si recano nei Paesi maggiormente sviluppati per studiare. Si tratta di giovani che fanno sacrifici immensi, e all’estero si organizzano in comunità che svolgono certamente funzioni di aiuto mutuo e solidale. Ma, soprattutto, si tratta di organizzazioni che promuovono il dibattito e l’azione per lo sviluppo del Paese di origine. R.P me ne cita alcune: un’associazione di giovani studenti in giurisprudenza, che ha realizzato una banca-dati delle professionalità di camerunensi residenti in Europa. Grazie a questa banca dati, co-operative e piccole realtà imprenditoriali del Paese riescono a rintracciare giovani professionisti in Europa che possono collaborare ad esempio in progetti di import-export o turistici. “Jeunes Suisse- Afrique”, che presenta progetti di cooperazione allo sviluppo alle istituzioni svizzere, per poi finanziare a cascata micro-progetti di cooperazione ideati e messi in opera da organizzazioni locali radicate nel Paese, che difficilmente hanno i mezzi per partecipare a bandi internazionali. L’ultimo progetto andato in porto: l’apertura di una radio locale grazie al contributo del Cantone di Ginevra (per un investimento di poche centinaia di euro). Altre organizzazioni, più politiche, fanno comunicazione ‘critica’ su quanto succede nel Paese e organizzano mobilitazioni e raccolte firme.

Ma forse, la cosa che più mi ha colpito, è che queste organizzazioni mantengono un contatto continuo con il Paese di origine. Principalmente, con giovani, e si tratta di giovani che magari in passato hanno vissuto all’estero e sono tornati al Paese, dove lavorano come medici, insegnano nelle scuole, si affermano come leader delle loro comunità. Un po’ come nella nostra Tramas de amistade, giovani africani che vivono fuori e giovani che sono rimasti (o sono tornati) hanno avviato un dialogo, che a volte diventa collaborazione concreta su progetti e idee di sviluppo. In altre parole, gli uni hanno bisogno degli altri.

1 commento:

  1. Questo articolo mi piace molto ed è una lezione di come si deve intendere il rapporto tra sè e la propria comunità di origine, tra sè e il territorio dove sei nato e cresciuto. Complimenti Davide

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