Tramas è un'organizzazione indipendente che ha due obiettivi:
1) mettere in rete giovani sardi, studenti, ricercatori e
professionisti, operanti nelle città e nei paesi della Sardegna, in continente e all'estero;
2) mettere in cantiere iniziative di analisi e azione per lo sviluppo
della Sardegna.


domenica 20 giugno 2010

Le spiagge di Israele e la marea nera

Israele ha tante spiagge. Quelle di Tel Aviv, piene di bar e di ragazze e ragazzi appoggiati placidamente a prendere il sole o a giocare a racchettoni (maktat, lo “sport nazionale israeliano”); quelle di Eilat, dove basta nuotare in pochi metri di acqua per vedere la barriera corallina carica di pesci colorati; quella di Ashdod,lunga profonda e sabbiosa. Due giorni fa camminavo su quella sabbia gialla e sottile in mezzo a enormi meduse spiaggiate parlando con Jacques, ebreo francese che passa 5 mesi all’anno in Israele e che ha un figlio che ha deciso di fare aliyah (ossia trasferirsi in Israele) da diverso tempo. “A volte dalle nostre finestre vediamo gli elicotteri che vanno verso Sud, e poi tornano. Lo sappiamo perfettamente cosa vanno a fare”. Ashdod è a circa 30 chilometri a Nord di Gaza, i missili qassam di Hamas sono arrivati anche qui anche se hanno colpito con più facilità Ashkelon ad appena 10 chilometri dalla Striscia. Ashdod è anche il porto dove sono fatti sbarcare i passeggeri delle navi che hanno provato a sfondare il blocco imposto da Israele. E anche i morti sono stati sbarcati qui. Il giorno dopo l’azione di forza dell’esercito israeliano ero a pranzo con altri israeliani di origine francese (algerini), che erano perfettamente d’accordo all’azione di forza; la sera, ero a una manifestazione di israeliani contrari (ce ne sono state diverse in diverse città). In Israele capita spesso, le posizioni sono varie e i contrasti comuni. L’attacco alle navi ha diversi aspetti negativi. Il primo è che sono morte dieci persone, sicuramente non dei pacifisti gandhiani, però degli esseri umani. Il secondo è che Israele è tornata alla ribalta ancora una volta per i suoi eccessi militari e, ciò che forse è peggio, la leadership israeliana attuale sembra non capire che l’opinione del mondo non è un elemento del quale, oggi, Israele possa più fare a meno. Ugualmente, visto da Gerusalemme, ciò che sembra essere mancato nell’analisi internazionale di questo tentato sbarco è capire la reale situazione nonché il cui prodest. Parlando di reale situazione si intende il fatto che il blocco a Gaza viene fatto da Israele ma anche dall’Egitto, paese arabo musulmano (da costituzione) e che si dichiara amico dei palestinesi; Egitto che non fa entrare i lavoratori palestinesi, che sta costruendo un muro più massiccio di quello israeliano (e che penetrerà sottoterra per circa 20 metri), che non manda nessun tipo di aiuto nella Striscia (solo ora hanno ricominciato, la pressione internazionale era eccessiva e bisognava mostrarsi buoni). Dove sono i commentatori occidentali che hanno rilevato questo fatto? Forse solo qualche giornale di estrema destra; bisogna veramente affidarsi a Feltri, che ugualmente gioca una partita sporca, per avere altre informazioni? E perché i pacifisti d’occasione non si occupano minimamente dell’Egitto? Il cui prodest è un altro aspetto interessante. Da quest’azione ci hanno guadagnato Hamas e la Turchia. Hamas perché può continuare monopolizzare l’attenzione del mondo; la Turchia perché quest’azione le da “lustro” nel panorama del mondo musulmano. L’azione turca è comprensibile: rifiutata dall’Europa prova a giocare un ruolo di leader nel vicino Oriente; basta pensare come pochi giorni prima la repubblica turca avesse chiuso un accordo con Brasile e Iran, celebrato sui giornali di tutto il mondo. Strano che abituati ai complotti nostrani nessuno abbi pensato che l’azione turca (l’unica nave che ha avuto problemi batteva bandiera turca ed imbarcava soprattutto cittadini di quel paese) poteva essere stata pensata per “cercare” quel tipo di incidente (senza immaginare che ci sarebbero stati dieci cadaveri). Questo incidente è l’occasione propizia per la Turchia per smarcarsi da Israele, paese al quale vende la preziosa acqua, ma dal quale acquista armi, contratti da 6 miliardi di dollari, ora tutti bloccati. Turchia che ora appare un paladino dei diritti umani, senza nessuno che ricordi che in questo paese basta stampare un libro in curdo e si rischiano anni di galera (si veda http://www.isardi.net/pagine/articoli_dettaglio.asp?ID=665). Un altro aspetto che forse non è stato capito in Occidente è che questo è il Medio Oriente e non l’Europa. Se si tenta di fare un’azione di forza e in seguito si oppone una risposta violenta a dei militari, in questa area del mondo la reazione può essere questa. L’armata israeliana difende i suoi soldati e non vuole correre più il rischio che vi siano morti o che vi siano sequestri, come quello del soldato Gilad Shalit, rapito da 1453 giorni da Hamas, nascosto e senza contatti diretti con la propria. L’ultimo video è stato un cartone animato di Hamas dove il soldato torna in Israele dentro una bara. Se i pacifisti avessero provato un’azione simile negli altri paesi dell’area la reazione sarebbe stata peggiore. E anche quando avvengono semplici visite, ricognizioni per monitorare i diritti umani, le risposte non sono propriamente democratiche. Basti pensare alla delegazione, composta anche da diversi Sardi, recatasi alcuni anni fa proprio in Turchia per visitare dei villaggi curdi: fermati, perquisiti, privati delle immagini, non arrestati solo perché occidentali (si veda http://nuovacitta.tripod.com/artago01/FERMATI.htm). Le spiagge che hanno visto passare gli elicotteri hanno dunque varie minacce: i razzi, l’incapacità di Israele di capire che è tempo di cercare e trovare altre strade che non siano solo il ricorso alla forza, l’odio indiscriminato di parte del mondo. Ma non solo. C’è anche una marea nera che si estende su Israele e si manifesta proprio mentre sto scrivendo. Questa minaccia non è il petrolio. Sono gli haredim (coloro che tremano davanti a Dio). Sono ebrei ultra-ortodossi, tra il 7 e il 10% della popolazione israeliana, parte di questi non riconoscono lo Stato d’Israele, affermando che questo potrà avverarsi sulla terra solo dopo l’avvento del Messia. Questo non gli impedisce di ricevere fondi statali (molti di loro non lavorano, studiano e basta), di usufruire di scuole e ospedali pubblici e di non fare il servizio Si vestono quasi tutti di nero (con una camicia bianca), portano dei cappelli stile Borsalino o dei copricapo fatti con pelliccia; le loro origini sono centroeuropee (Polonia e Lituania), il loro abbigliamento ricalca quello che usavano lì, peccato che in Israele si arrivi a 40° gradi. Oggi a Gerusalemme, e in un quartiere ortodosso di Tel Aviv, circa 100.000 uomini, una manifestazione imponente per Israele, 4 una marea nera, si è riversata nelle strade per manifestare contro una sentenza della Corte Suprema di Giustizia che ha posto agli arresti alcuni elementi di questa eterogenea comunità. Questi avevano infatti rifiutato di mandare i propri figli in una scuola frequentata anche da ebrei sefarditi (di origine orientale) per la differente interpretazione della Halakha (legge ebraica). Il peso di questa comunità all’interno di Israele sta pericolosamente aumentando e non poche sono le critiche che il Paese laico continua a rivolgere contro le discriminazioni positive che questa comunità, che rifiuta l’idea di Stato Ebraico continua a sfruttare (di recente il sindaco di Tel Aviv ha criticato fortemente il sistema educativo haredi, si veda http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3883809,00.html). Questo, quanto i nemici esterni, sarà il grande problema di Israele nei prossimi anni. E mentre 100.000 haredim sfilavano intorno ai loro quartieri e al carcere, 40.000 persone assistevano, sempre a Gerusalemme, al concerto di Elton Jhon. Tutto questo è Israele, che si apre con spiagge di sabbia sui suoi mari. Estremisti religiosi, giovani abbronzati e sonnolenti sul lungomare della peccaminosa Tel Aviv, concerti di rockstar e preghiere. E una massa di persone normali che affrontano ogni giorno la vita. Un paese complesso, che non si può ridurre a una limitata e falsa maschera d’odio. (Filippo Petrucci)

domenica 6 giugno 2010

Le elezioni della settimana scorsa nelle otto province e in 171 comuni sardi.

Neanche ai nostri elettori piace l’istituzione provinciale, e così non vanno a votare, soprattutto in una Sardegna dove le province sono raddoppiate da neppure dieci anni, passando da quattro a otto. Undici punti di partecipazione in meno delle scorse elezioni. A Cagliari appena 47 mila elettori su 137 mila si sono presentati ai seggi delle provinciali tra domenica e lunedì. E la capitale conta, a partire dalla demografia. Eppure a Cagliari si ritornerà al voto nella terza settimana di giugno, quando l’estate riempirà la spiaggia del Poeto, i ragazzi saranno alla prima settimana delle vacanze scolastiche, le famiglie inizieranno a far prendere aria alla casa al mare. Non sarà facile individuare stimoli all’astensionismo giovanile, probabile bacino di questo vero e proprio partito trasversale. Nelle province di Cagliari, Nuoro e Ogliastra i presidenti dei due schieramenti attendono la parola definitiva che li consacri per i prossimi cinque anni, se il Parlamento non le dovesse abolire prima. I numeri usciti dal primo scrutinio dovrebbero favorire il centrosinistra a Nuoro, il centrodestra a Cagliari e Tortolì, sempre che le coalizioni ricompongano le divisioni manifestatesi al proprio interno. Il Sassarese, il Sulcis-Iglesiente e il Medio Campidano sono già appannaggio del centrosinistra,la Gallura e l’Oristanese del centrodestra. Il comune più grande in palio, Quartu S. E, è passato dalla sinistra alla destra, a Porto Torres invece si disputeranno lo spareggio due liste di centrosinistra.Dunque: le città del terziario (Cagliari e Olbia) restano a destra, le città della cultura (Sassari) e delle industrie (Carbonia e Porto Torres) vanno alla sinistra? E’ anche così, dopo la sbandata di un anno fa di quote della classe operaia sulcitana dietro le promesse di Berlusconi. Il quale, invece, non paga dazio in Gallura, nonostante lo sgarbo del G8 e la presa in giro della strada Sassari-Olbia. La Gallura meridionale resta un mondo tutto da capire con il suo melting pot, l’ibridismo culturale e la strana combinazione di affari che hanno evidentemente pervaso l’intera struttura sociale. Chi ha vinto, oltre il partito delle astensioni? Dipende se si prendono in considerazione le elezioni più vicine, le regionali del febbraio dello scorso anno, o quelle dello stesso tipo, le provinciali del 2005. E’ evidente che gli schieramenti prendono a loro riferimento quello che più loro conviene, dato che i gruppi dirigenti quasi mai dichiarano di essere sconfitti. Cinque anni fa le province in mano al centrosinistra erano sette e una sola (Oristano) era governata dal centrodestra. Allo stato attuale, cioè prima del ballottaggio di domenica prossima, il centrodestra ha già due province e ha quasi messo il cappello su altre due. Finirebbe quattro a quattro. Nel numero dei voti, invec, il centrodestra è in forte svantaggio rispetto alle regionali dello scorso anno, ma i votanti sono di meno e solo un’analisi più attenta del voto potrà dimostrare ciò che sembra ipotizzabile, che a perdere dall’astensionismo in questo caso sia stato proprio il centrodestra. Il Pdl di Berlusconi è stato sconfitto - nei voti di lista - dal Pd ovunque tranne che in Provincia di Nuoro. E’ sceso da 248mila voti ad appena 131mila. Era al 30 per cento, ora è al 16, secondo partito dopo un Pd che cala dal 24 al 20 per cento. Nella città di Cagliari il partito della libertà si è fermato a 6.996 preferenze, il 18,8 per cento a fronte del 32,97 per cento conquistato alle regionali del 2009. Nel suo schieramento ha aumentato in voti solo il Psd’Az, grazie soprattutto al suo 12,8% a Nuoro, tutti gli altri partiti hanno perso rispetto alle regionali dell’anno scorso, ma mentre i centristi hanno sostanzialmente tenuto percentuali accettabili (grazie all’astensionismo record), il Pdl è crollato. Il centro sinistra ha ancora una volta confermato di avere un elettorato più costante, o più fedele come si dice in gergo. Temeva una catastrofe, che non c’è stata. Le difficoltà aggregative del PD al proprio interno si sono aggiunte alle difficoltà nel rapporto con taluni degli alleati. Questa settimana serve anche per aggiustare i cocci. Infine, l'Irs, Indipendèntzia Repùbrica de Sardigna, del cui successo i cronisti hanno parlato come di ‘moda dell’indipendentismo’, porta a casa quasi 30 mila voti, due posti quasi sicuri nei consigli di Sassari e Oristano e un terzo possibile a Nuoro, il sindaco al comune di Perfugas. Prendendo a prestito l’ultimo libro di uno dei leaders di Irs, evidentemente “i sardi sono capaci di amare” anche l’indipendentismo. Forse, anche oltre le mode. Nell’insieme, quindi, con queste elezioni non cambierà molto, se non quello che comunque dovrebbe cambiare. Ma, per questo, si aspettano le altre partite, in altri campi.

(Salvatore Cubeddu)

domenica 30 maggio 2010

Il ricordo e la memoria

Avevo 17 anni, e quel giorno tornavo da una gita spensierata con i miei amici; nel bar, vicino alla stazione dei pullman, le immagini del televisore scorrevano incomprensibili: hanno ucciso Giovanni Falcone.

Onestamente non sapevo chi fosse, cosa faceva, che faccia avesse. Stavo per diventare maggiorenne ma il mio mondo non comprendeva mafia, politica, stragi. Unico obiettivo: superare la maturità e passare una estate al mare come le altre. Eppure a distanza di 18 anni, ricordo perfettamente quel giorno, quelle immagini che avevano rovinato una giornata di festa. Quante cose sono cambiate da allora? Molte, poche, dipende dai punti di vista, so solo che sono cresciuto e non sono sicuro di aver capito fino in fondo cos’è successo quel 23 maggio del 1992 a Capaci.

Ogni anno in occasione dell’anniversario della strage in cui morì il magistrato Falcone, la moglie e gli uomini della scorta, vengono organizzati diversi eventi, commemorazioni, iniziative “per non dimenticare”, perché il tempo passa e la forza dirompente di quell’evento che scosse le coscienze si affievolisce e richiede una rinfrescata. “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace” scriveva Primo Levi e realmente necessita di continui stimoli e di strumenti per tenerla in costante allenamento.

Quanto è importante ricordare? Direi che è fondamentale, pensate a coloro che soffrono di amnesia come i malati di Alzheimer: ricordano tutte le parole del “Barbiere di Siviglia” ma non ricordano dove abitano e non sanno ritrovare la strada di casa. Ricordare fatti, persone, situazioni, profumi, sapori, e poterli associare in una rete, consente di vivere seguendo schemi ben precisi che altrimenti bisognerebbe reinventarsi continuamente. In pratica, se non ricordi come si apre la porta, non potrai più rientrare in casa; se non ricordi il nome di quell’amico di tuo padre che fa l’idraulico rimani con la casa allagata. Insomma la memoria ci consente di vivere e sopravvivere. Del resto i buchi, spesso voragini, della nostra memoria fanno la fortuna dei produttori di agende, pendrive, PC e tutti i surrogati del nostro cervello.

Ma ricordare è un processo molto più complesso del semplice memorizzare. Un elenco si può mandare a memoria, ma ricordare un evento significa associarlo alla componente sensoriale che rende la nostra mente uno strumento unico e insostituibile. Ricordiamo i suoni, i profumi, le sensazioni, i sentimenti che si associano all’evento, al nome di quella ragazza che ci piaceva tanto, alle immagini che ci hanno sconvolto o che ritornano alla mente in modo piacevole. Ricordo ancora il profumo particolare di quel libro preso in prestito alla biblioteca universitaria, che non era semplice odore di muffa, e accompagnava la lettura de “Il nome della rosa”.

Senza contare poi che il ricordo della nostra storia personale, il nostro vissuto, è la base per costruire la nostra stessa identità: se non avessimo memoria di noi stessi non potremmo sapere chi siamo.

Non solo, se la memoria è di aiuto al singolo, tanto più la memoria è di aiuto alla collettività. In ogni gruppo famigliare, per esempio, esiste qualcuno che è “portatore” della memoria storica della famiglia, quello che si ricorda i nomi delle zie emigrate in Germania, o che ricorda quel periodo brutto in cui tutti si rimboccarono le mani per aiutare il vicino di casa. Questi ricordi hanno una doppia valenza: da una parte creano un senso di appartenenza al gruppo, dall’altra ampliano la sfera esperienziale del singolo. “Ti ricordi di quel natale a casa di Nonna?” Un ricordo condiviso che ci fa sentire parte di un gruppo, che ci aiuta ad identificarci in quel gruppo, in quella famiglia piuttosto che in un’altra, avendo sempre un punto di riferimento. “Ma nonna il sugo lo faceva così”. Il ricordo dell’esperienza degli altri diventa bagaglio culturale comune, di cui il singolo può trarre giovamento, consentendo di raggiungere un obiettivo prima, con minori sforzi e tentativi falliti.

E come la memoria individuale è alla base dell’identità del singolo, così (in modo forse semplicistico) la memoria collettiva è la base dell’identità di una nazione.

Su questa riflessione nascono le iniziative di commemorazione di eventi drammatici come la strage di Capaci: lo scopo è di “rinfrescare” la memoria collettiva, che aiuti chi c’era a tenere saldi i punti di riferimento, a rinnovare l’impegno dello Stato (inteso come collettività) nella lotta alla mafia, ma anche trasmettere a chi non c’era, bambini e adolescenti, quella memoria collettiva tanto importante per l’identità di una nazione. Ricordare la figura di Falcone, e non solo la sua morte, con la sua storia e il suo impegno civile, vale a rinnovare il senso di identità, di appartenenza ad una nazione che ci unisce, e che nei giovani sembra invece venire meno in un periodo in cui le divisioni e l’individualismo tende a prevalere.

Il tema “memoria e identità” così tanto dibattuto a livello politico locale e regionale e, a mio parere, sottovalutato a livello nazionale, dovrebbe invece essere riproposto continuamente alle giovani generazioni, lavorando nelle scuole prima di tutto e coinvolgendo progressivamente famiglie, adulti, anziani, le varie componenti della società, le istituzioni, non lasciando che rimanga una questione filosofica o di marginale interesse per gruppi politici o peggio argomento di campagna elettorale da far cadere presto nel dimenticatoio. Mi sembra però una di quelle imprese impossibili, destinate al fallimento, soprattutto se guardiamo all’esempio istituzionale: come si può pretendere di organizzare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia se non si dà il giusto valore alla memoria storica? Probabilmente assisteremo ad una serie limitata di eventi privi di contenuti, forse solo l’occasione per un giorno di festa e per i ragazzi un giorno in meno di scuola!

A tal proposito il pensiero va proprio agli adolescenti del mio gruppo parrocchiale: quando ho mostrato loro le foto di alcuni personaggi ben noti per il loro impegno sociale, chiedendo di identificarli, tra Ghandi, Madre Teresa, Martin Luther King, Mandela, una sola di queste foto non provocava nessuna reazione, era quella di un uomo di mezza età, capelli brizzolati e baffi neri, un uomo come tanti e non l’hanno riconosciuto. Era la foto di Giovanni Falcone.

Roberto Prost (robertoprost@yahoo.it)

Per approfondimenti:

http://www.fondazionefalcone.it/index2.htm

http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=142

http://www.governo.it/150_italia_unita/anniversario/index.html

martedì 18 maggio 2010

La Sardegna verso il declino demografico

Nel 2047 la Sardegna, secondo le previsioni Istat, avrà 1.230.453 abitanti. Una diminuzione del 27% rispetto al 2009. Secondo le Nazioni Unite, genocidio è “ogni atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. La diminuzione di più di un quarto dei propri abitanti non è la distruzione parziale del popolo sardo?
A questi dati sarebbero affiancare quelli sulla natalità (1,0 bambini per ogni famiglia) e quello sulla percentuale di anziani.
Per quanto riguarda il primo punto, non solamente la Sardegna ha il più basso tasso di natalità d’Europa. Siamo anche alla pari con la nazione più vecchia del mondo, il Giappone. Sulla percentuale di anziani, se nel 1992 gli ultrasessantacinquenni erano il 12,6% della popolazione, nel 2009 sono stati il 18,7%, e la tendenza è alla crescita.
Affrontare la dinamiche demografiche permette di avere più chiari fenomeni sociali profondi. I sociologi hanno spesso studiato come nascono i paesi. Nella Sardegna del XXI secolo, invece, dovremo studiare come i paesi muoiono. Tra il 1991 ed il 2009 il 71,4% dei comuni della Sardegna hanno perso popolazione. 32 ne hanno perso più del 20%, e 115 tra il 10% ed il 20%. Nel 2006 uno studio commissionato dalla Regione ha costruito un indicatore: lo Stato di Malessere Demografico (SMD). L’SMD racchiude sei indicatori, ed è suddiviso in cinque categorizzazioni: buona, discreta, precaria, grave e gravissima. 164 centri abitati (43,7% del totale) hanno un SMD grave o gravissimo. Significa che nei prossimi decenni scompariranno decine e decine di comuni. Questi fenomeni interessano le aree centrali della Sardegna. Come evidenziato dallo studio “ la maggior parte di questi comuni si distribuiscono su un’area molto vasta che occupa circa un terzo della superficie isolana, investe le regioni centrali e giunge fino alle colline della Trexenta, del Flumendosa e del Flumineddu. Quest’area si caratterizza, se si eccettua la Trexenta, per l’allevamento brado del bestiame ovino, caprino e suino. Inoltre, le zone maggiormente interessate da un’elevata condizione di malessere demografico sono quelle meno servite dalla viabilità stradale principale e dalla rete ferroviaria statale”.
Lo studio è stato pubblicato nel 2006. Non ci sono evidenze che queste dinamiche siano state arrestate. Anzi. La valutazione ex-post del programma LEADER + 2000-2006, un programma europeo volto a promuovere lo sviluppo integrato delle aree rurali, non ha mai avuto luogo. Non sappiamo se verrà mai fatta. In compenso il valutatore indipendente del Programma Operativo Regionale (POR) 2000-2006, il programma regionale di spesa dei fondi europei, si è espresso. Al convegno “La Sardegna che cresce” del 9 giugno 2009 si è fatto, tra l’altro, una valutazione del POR 2000-2006. Il valutatore ha giudicato negativamente i risultati sul fronte delle politiche rurali. Alle problematiche rurali fanno da contraltare dinamiche demografiche dell’area urbana di Cagliari anch’esse di primaria importanza. La capitale della Sardegna perde 2.000 abitanti all’anno. La crescente espansione dell’hinterland ha come prima, e spessa unica conseguenza, lo sfruttamento di territorio in un’ottica di brevissimo periodo. La funzionalità di questa città ipertrofica (l’area metropolitana di Cagliari), non fa che peggiorare.
L’abbandono delle zone rurali, lo spostamento verso le coste, l’invecchiamento e la periurbanizzazione sono fenomeni comuni a tutta l’Europa occidentale. In Sardegna, però, assumono connotati catastrofici. Straordinari. Alla elezioni provinciali, per ora, si è parlato poco di questi aspetti. Sicuramente se ne parlerà. E tanti candidati presidenti e consiglieri si sciacqueranno la bocca con le “zone interne”. Non prendendo atto di tutto quello che, in gran parte loro stessi, non hanno compiuto in questi anni. Al di là degli slogan, però, ci sarebbe bisogno di un progetto. Coraggioso. Rivoluzionario. Includente, innanzitutto per donne e giovani. Cominciamolo.
(Enrico Lobina - enricolobina@tiscali.it)

domenica 9 maggio 2010

Il mio Master and Back

Mi chiamo Daniele Onnis, sono laureato in Economia a Cagliari. Nel 2008 apertosi il bando di alta formazione M&B, ho scelto di frequentare un Master di II livello a Milano, rimanendo indifferente alla possibilità di tornare o di non tornare in Sardegna, a seconda delle prospettive professionali che mi sarebbero presentate dopo tale percorso.
Sono quindi tornato in Sardegna, con la prospettiva di partecipare al bando di rientro 2009. Il bando si è aperto solo in autunno e, attraverso le note vicende dei mesi scorsi, anche riportate della stampa, oggi sono in attesa del finanziamento di un contratto di 2 anni presso un'azienda privata di Cagliari. In merito ai fondi, anche a seguito delle azioni di mobilitazione dei laureati, si è giunti ad un ordine del giorno unitario del Consiglio Regionale a copertura di tutte domande di rientro, anche se ad oggi nessun percorso è stato ancora attivato.
Il M&B è un ottimo strumento che può funzionare non solo in quanto lo si finanzia: I finanziamenti sono una conseguenza. Questo programma può funzionare se sono rispettate alcune condizioni. Riporto quelle che mi vengono in mente:1. si ha una idea di sviluppo per la Sardegna, da qui ai prossimi 10-15-20 anni: questa è una provocazione, se mi è permesso, che rivolgo all'attuale classe politica, al mondo del lavoro, al mondo delle imprese;2. si ha una ampia e diffusa percezione del reale valore economico e il ruolo strategico che il mondo oggi riconosce dell'eccellenza e alla conoscenza e si orientano le politiche di conseguenza;3. si è in grado di riconoscere tale valore come incorporato nella testa delle persone che si formano nelle migliori enti del mondo e si è disposti a investire il necessario per aggiudicarsi tale valore e tenerlo in casa. Il modo per tenere questo valore in casa è accumularlo nella testa dei sardi e di incentivarli adeguatamente a rimanere in Sardegna.
È apparso chiaro con le ultime vicende che la macchina politico-burocratica è strutturalmente debole per gestire direttamente un programma così complesso e articolato. In particolare questa macchina è inadeguata a gestire alcune delle variabili cruciali nell'accompagnamento dei laureati nel loro percorso, a cominciare dai tempi. Il tempo è una variabile cruciale almeno quanto le risorse finanziarie, mentre troppi ritardi hanno condizionato il successo dei percorsi. La mia borsa è arrivata dopo 8 mesi dall'inizio del master. Il M&B nel mio caso non ha scelto una risorsa in base al suo valore, ma in base a una disponibilità economica di partenza. In generale però gli strumenti di accompagnamento dei laureati e di selezione degli enti sono carenti e sottodimensionate, almeno rispetto alle risorse pubbliche impegnate nel singolo percorso. Vorrei fare una proposta, con la quale concludo le mie riflessioni. Proviamo a riconsiderare completamente l'architettura del programma e rivedere il ruolo delle parti interessate. Faccio questa proposta anche attingendo dai punti dell'ordine del giorno unitario del Consiglio Regionale dell'8 marzo scorso sul programma M&B. Sarebbe opportuna innanzitutto la costituzione di un "Comitato di programmazione dei percorsi" a cui aderiscono le istituzioni regionali, i rappresentanti dei laureati, le aziende e gli enti di ricerca e nel quale si concordano il numero e il tipo dei percorsi di andata e di rientro, anche avendo attenzione alle esigenze espresse dal mercato e dal sistema Sardegna nel suo complesso. Questo tavolo dovrà, nella definizione dei bandi, premiare i percorsi di rientro in strutture private rispetto agli inserimenti negli enti pubblici, che appaiono sempre più come dei parcheggi che alimentano il precariato. Credo anche che lo schema attuale delle cosiddette "vetrine", che fa incontrare laureati e organismi ospitanti, sia afflitto dalla presenza di asimmetrie informative: i laureati non conoscono le aziende e le aziende non possono valutare a priori la qualità del laureato. La Regione dovrà allora redigere una accurata mappa delle aziende e dei centri di ricerca, individuando i "virtuosi", secondo diversi criteri: i percorsi di successo già ospitati, lo stato di salute delle aziende, il tipo di contratto proposto, esprimendo una sorta di certificazione di qualità o anche un rating. Sarebbe opportuno quindi erogare i finanziamenti sotto forma di "voucher" o di "dote" non alle imprese, ma ai candidati, che saranno liberi di spendere la propria borsa di rientro presso l'ente che considerano migliore anche in considerazione del rating assegnato dalla Regione; gli enti ospitanti al contrario si troveranno a competere tra loro in termini di condizioni contrattuali migliori per aggiudicarsi i "voucher" e i laureati. Sono convinto fine che le borse di rientro possano essere proficuamente utilizzate non solo per stipulare contratti di lavoro dipendente.
Parlando nei mesi passati con molti borsisti, più di una volta mi è capitato di sentire che alcuni sarebbero entusiasti di un percorso di rientro orientato alla creazione d'impresa. Risorse finanziarie e competenze possono essere messe in gioco dai laureati che, singolarmente o a gruppi provano coraggiosamente mettere in piedi una iniziativa propria, forti delle competenze acquisite.
(Daniele Onnis )

lunedì 26 aprile 2010

Sa die de sa Sardigna, de sos italianos liberos, de sos casteddaios

Una settimana di feste. Stavolta sono proprio allineate, dalla domenica al sabato: dal 25 aprile al primo maggio passando per il 28 aprile, sa die de sa Sardigna. Non saranno care forse nello stesso modo a tutti, anche se tutte dovrebbero interessarci. Come uomini liberi, come sardi, come cagliaritani. Ma, forse non tutti siamo uomini liberi, festeggiarci come sardi non so a quanti interessi, il dichiararsi cristiano è sempre più un fatto di minoranza.
In realtà noi istituiamo queste feste - celebriamo chi è morto con le armi in pugno o si è ribellato o gli hanno tagliato la testa - appunto perché, in questo caso, la gran parte degli italiani aveva appoggiato il fascismo e fatta propria la sua guerra, perché da secoli in Sardegna si era accettato di venire padroneggiati dallo straniero, ed era raro morire per la propria fede. Servire il potente, ingraziarsi il padrone, sacrificare agli dei del tempo era (è?) la regola, la costante aurea mediocritas secondo cui viviamo troppo spesso la quotidianità.
Li abbiamo conosciuti coloro che appoggiarono il fascismo, ci erano anche …. padri, nonni, zii. E – perché no? – le nostre madri, nonne, zie. Forse, ci sarebbero stati anche i nostri fratelli, forse … anche noi. O no? Chi può dirlo? Resistere all’onda non è facile, in pochi scelgono per convinzione una scomoda libertà, non pochi seguono l’onda, il senso comune, la convenienza dei tempi.
In quel 28 aprile 1794 probabilmente saremmo andati ad assaltare il castello di Cagliari, per liberare, con quei due prigionieri, anche la nostra storia. Almeno per un giorno, per qualche mese, forse un anno. Non diversamente, in fondo, da quello che succede a tutti i popoli per i quali la responsabilità di essere liberi è un peso e la soggezione un comodo esercizio quotidiano. I sardi hanno scoperto da poco di essere stati gloriosi e partecipi della grande rivoluzione, persino meglio e più di tanti altri in Italia. Ma la studio della storia può essere persino ingombrante, non solo per i forestieri – ministeri, assessorati, giornali, intellettuali – che pretendono che sia giusto negarcelo. Si pensi all’inno “Procurad’e moderare”: scritto nel 1795 e gridato nelle
piazze e nelle campagne sarde per qualche anno, se ne persero le tracce per tanto tempo. Proibito: per paura, dai piemontesi e poi dagli italiani; per vergogna, dai nostri, e non solo dai reazionari. Lo riscoprì e pubblicò Sebastiano Satta, esattamente un secolo dopo. Nel frattempo era conosciuto, tradotto e trascritto nei libri in Francia, in Germania e in Inghilterra. E tutti i viaggiatori che nell’800 visitano la Sardegna parlano di quei fatti di cui da noi non si parlava più, di quel 28 aprile 1794, e di prima e di dopo. Ma sempre lo tenne presente la dinastia dei Savoia. Che, nonostante le richieste, mai perdonò veramente… Sapeva che i sardi
avevano ragione. La festa di Sant’Efisio è ingombrante. Le transenne condizionano il traffico già dieci giorni prima. Come se la municipalità temesse le altre due feste. Come se la carta del santo potesse venire giuocata contro la democrazia tra i popoli e la libertà dei sardi. Come se … Efisio non fosse morto per un’altra libertà, la più grande, la rinuncia alla vita per quell’ebreo marginale che è stato Gesù di Nazareth. Ma: che ce ne facciamo di questi resistenti, dei martiri folli, dei popoli in rivolta? A che servono le feste?Evidentemente servono, visto che ci sono dappertutto e da sempre. Forse … è perché ci sono questi esempi. (Salvatore Cubeddu)

domenica 18 aprile 2010

Sistemi Territoriali da valorizzare: attori, risorse, relazioni

Il grande interesse che, oggigiorno, viene manifestato per lo studio del territorio induce ad una riflessione sul significato che ad esso deve essere attribuito. Istituzioni pubbliche, partiti politici, associazioni imprenditoriali sono impegnati in una attività di “scavo” sui molteplici aspetti  del potenziale sviluppo che il territorio può esprimere. Ciò nel tentativo di pervenire, anche attraverso il contributo degli studiosi, alla individuazione di linee guida per uno sviluppo sostenibile delle diverse aree sistema in cui il territorio si articola. La prima considerazione è che il territorio non viene considerato più, come in passato, una risorsa scarsa. Esso si trova, infatti, ad essere, anche in presenza di una continuità di vocazione, in competizione con gli altri territori. Tale presupposto scaturisce dalla consapevolezza che attualmente l’economia e la società stanno assumendo sempre di più un carattere di globalità. Il problema trova la sua ragion d’essere nel superamento delle barriere spazio-temporali tra Paesi per cui tutti i territori sono tra loro concorrenti. L’accentuazione di tale concorrenza determina una  ipercompetizione, o concorrenza estrema, quale conseguenza del fenomeno della globalizzazione, della diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), di Internet. Gli attuali grandi cambiamenti politico-istituzionali, economici, sociali e tecnologici spiegano il mutamento culturale sottostante  lo sviluppo sostenibile.Tale problematica, infatti, richiama la conoscenza di alcuni documenti di base che delineano gli orientamenti di sviluppo futuro della società europea, in particolare, il documento di Lisbona sulla società dell’informazione e della conoscenza e quello non meno importante, di carattere mondiale, dell’Agenda 21 sullo sviluppo sostenibile.

Gli elementi chiave attraverso cui si può pervenire alla valorizzazione di un territorio o di un’area sistema possono essere ricondotti alle condizioni dello sviluppo sostenibile, al ruolo guida delle risorse materiali e immateriali per lo sviluppo dell’area sistema, agli attori per la realizzazione di un sistema di governance e promozione della sua identità. Al fine di realizzare le condizioni per uno sviluppo sostenibile si rende necessario prendere in considerazione  tre dimensioni: la dimensione economica, la dimensione sociale e la dimensione ambientale. Queste tre dimensioni, tra loro interdipendenti, devono comporsi in un insieme che ne definisca la vera sostenibilità. Infatti l’esistenza nel territorio di un tessuto imprenditoriale, di un adeguato reddito pro-capite, di livelli di occupazione, di capitale umano e capitale sociale ed infine dell’esistenza di adeguate misure di rispetto  dell’ambiente naturale  e del paesaggio sono l’insieme delle condizioni di sviluppo sostenibile così come sono individuate dalle linee guida dei documenti di Lisbona e dell’Agenda 21.

In questa direzione vanno considerate le sintesi conclusive dei Rapporti d’Area elaborati dalle otto Province della Sardegna che analizzano le condizioni e le dinamiche socio-economiche del territorio richiamandosi a delle ipotesi di Progetti Integrati in cui si evidenziano le strategie di sviluppo delle diverse aree sulla base delle potenzialità espresse dal territorio. In uno scenario di crescente mobilità delle risorse, il territorio appare come un agente di sviluppo cruciale e al contempo esposto a rischio. Infatti, il territorio esercita, da un lato, un’influenza spesso decisiva sulle vicende dei singoli operatori, dal singolo individuo, alle famiglie, alle associazioni (anche di carattere volontario), alle imprese e in genere a tutte le organizzazioni, ma, dall’altro, può perdere la propria conoscibilità e capacità di attrazione a causa di tendenze omologanti a livello globale. Tali evidenze inducono a riconsiderare l’idea stessa di territorio e a ricercare modelli di conduzione che ne controllino effettivamente le dinamiche costitutive ed evolutive. L’adozione di un approccio sistemico per lo studio di un’area sistema consente di pervenire non solo ad una concettualizzazione della nozione del territorio come entità attiva, ma anche a definirne le linee guida per la conduzione e la regolazione, nella constatazione che lo stesso sia continuamente sottoposto ad una pluralità di interdipendenze, di condizionamenti e di influenze.

Il sistema territoriale si deve caratterizzare, perciò, per la presenza di un organo di governo, sede delle decisioni di indirizzo, e di una struttura operativa, nella quale tali decisioni vengano implementate. Tale organo di governo si deve porre come mobilitatore attivo di energie e di risorse orientato ad una funzione di indirizzo unificante, al fine di poter garantire la coesione della struttura operativa e la vitalità del sistema. Deve inoltre ricercare adeguate forme di collaborazione con gli organi di governo ai diversi livelli territoriali (regione ed enti locali) e con le altre istituzioni presenti nel territorio, sia pubbliche che private. Il sistema territoriale si deve dotare, inoltre, di un piano di sviluppo che deve avere, innanzi tutto, un carattere bi-partisan senza, cioè, alcuna invadenza da parte di coalizioni politiche e partitiche spesso pronte a rimettere in discussione scelte già definite e condivise. Il piano va, quindi, definito con un programma di medio-lungo termine, dove gli attori economici e sociali con le relative partnership diventano importanti almeno quanto le politiche. Il piano di sviluppo deve mettere insieme il patrimonio materiale (archeologico, ambientale, urbanistico, industriale) e quello immateriale ( tradizioni popolari, antichi saperi, disponibilità di know-how) al fine di realizzare una maggiore integrazione. Inoltre il piano deve basarsi sul capitale relazionale del territorio, facendo convergere un insieme di risorse differenti che possano interagire tra di loro e costituiscano il presupposto per realizzare i sistemi di relazione, di indivisibilità, di solidarietà e di partecipazione. Il processo di costruzione di un nuovo patrimonio cognitivo territoriale deve combinare momenti di partecipazione democratica e momenti di direzione più autocratica. Sul piano dell’emersione delle problematiche che promanano dal territorio ci si deve muovere dalle identità spontanee del contesto, garantendo una base di coinvolgimento e di partecipazione essenziale a tutte le comunità professionali che possono portare innovazione al sistema; sul piano del governo e della guida occorre fornire alle singole iniziative locali un senso rispetto all’indirizzo di medio termine del contesto, favorendo l’integrazione con le scelte quotidiane e assicurando il necessario supporto in termini di risorse economiche e finanziarie.In sintesi, lo sviluppo dei nuovi sistemi territoriali non può emergere senza un disegno programmatico, intenzionale, di natura politica strategica, che vede le istituzioni intermedie (associazioni imprenditoriali, consorzi, enti locali, fiere, centri di servizio, università, banche locali) aiutare la crescita, crescendo insieme. Tale disegno deve perseguire uno sviluppo locale sostenibile e condiviso, sulla base di una messa a sistema dei talenti e delle relazioni privilegiate sul territorio.

(Dante Zaru) 


martedì 30 marzo 2010

Sardegna: verso il declino demografico? L’incontro di Tramas de Amistade venerdì a Cagliari

Raccontare delle dinamiche demografiche in Sardegna significa raccontare di noi. Le nostre vite. Le vite delle nostre amiche, amici, conoscenti, colleghi, parenti. Significa raccontare di chi, costretto, abbandona i propri paesi per vivere in città. O chi, nato e cresciuto a Cagliari, non ci può rimanere, per il finto paradosso per cui nella capitale sarda si costruiscono case e contemporaneamente diminuiscono gli abitanti. O della grande, gigantesca e nuova ondata emigratoria.Al di là dell’impatto emozionale di queste dinamiche, però, c’è un aspetto scientifico e generale da analizzare. Con questo spirito Tramas de Amistade ha organizzato un incontro per venerdì 2 aprile a Cagliari. Appuntamento alle 17:30 all’ostello della gioventù, in Piazza S. Sepolcro 3, quartiere Marina. Luisa Salaris (demografa, Università di Cagliari) ci illustrerà le tendenze demografiche degli ultimi 30 anni in Sardegna, e le previsioni per i prossimi 30. Sabrina Perra (sociologa, Università di Cagliari) discuterà le politiche regionali riguardanti le peculiarità emerse dalla prima presentazione. All’incontro parteciperanno amministratori regionali e locali. Hanno garantito la presenza Giorgio La Spisa, assessore regionale alla programmazione, Franco Manca, assessore regionale al bilancio, e Marco Melis, sindaco di Arzana. Il dibattito sarà veloce e dinamico. Dopo le due presentazioni in power point di 15 minuti circa, gli amministratori avranno 5 minuti a testa. Saranno saltati i preliminari e i ringraziamenti di rito. E poi il dibattito sarà aperto a tutti gli interventi dei partecipanti, che potranno porre domande o fare commenti. Ogni aspetto della vita collettiva di una società è fortemente influenzato dalle dinamiche demografiche. E pare incredibile che nei giornali, sulle televisioni e nel dibattito politico questo aspetto sia inesistente. Il solo dato che la Sardegna è, insieme al Giappone, la regione al mondo con il più basso tasso di natalità, meriterebbe da solo un approfondimento. Tramas vuole cominciare. Dateci una mano.

 (Enrico Lobina)

lunedì 22 marzo 2010

50 anni dalla strage di Sharpeville. La continua sfida della costruzione di una società inclusiva, in particolare al livello regionale e locale

Il 21 marzo si commemora la giornata internazionale contro il razzismo. La data non è casuale: cinquant’anni fa, in tale giorno, la polizia sudafricana apriva il fuoco a Sharpeville uccidendo 69 individui che manifestavano pacificamente contro la politica dell’apartheid.

“Sia il lavoratore migrante che ogni giorno subisce ogni forma di discriminazione a causa del suo status di non-cittadino, o l’individuo che non può trovare un lavoro adeguato a casa del suo colore, il membro di una comunità etnica che di fatto non ha accesso all’educazione a causa della sua appartenenza, la donna che è ridotta in schiavitù a casa della sua origine, tutte queste situazioni ci ricordano che il razzismo è vivo e ‘infesta’ tutte le società del mondo”: questo il messaggio lanciato nell’occasione della giornata dale Nazioni unite

Questa giornata è dedicata al coraggio e alla determinazione delle persone comuni, e nondimeno straordinarie, che quotidianamente si impegnano per la lotta contro ogni lotta alle discriminazioni, sfidando la cultura del razzismo, ad esempio sul posto di lavoro: a scuola, negli ospedali, nei mezzi di trasporto, e così via.

Al di là dell’impegno volontario, le autorità pubbliche, ad ogni livello, hanno obblighi ben precisi in materia di lotta alla discriminazione razziale e alla xenophobia. Questo implica non solo l’obbligo da parte di esponenti dello Stato e delle istituzioni pubbliche di astenersi da comportamenti razzisti, anche verbali, ma quello di impegnarsi attivamente per la costruzione di società aperte e tolleranti, aperte alla conoscenza reciproca, attraverso tutti gli strumenti a loro disponibili: dalla programmazione territoriale alla sensibilizzazione attraverso interventi pubblici.

Questo discorso vale naturalmente anche al livello regionale e di enti locali. Il ruolo chiave del “difensore civico regionale”, che ha tra i suoi compiti quello di vigilare sulla correttezza e trasparenza dell’azione amministrativa, è ancora sconosciuto ai più. Al livello nazionale è stata istituita una rete di Enti Locali per i diritti umani e per la pace, con la finalità di mettere in rete le iniziative in materia di cooperazione internazionale, sensibilizzazione, ospitalità di difensori dei diritti umani provenienti da altri Paesi la cui integrità fisica è a rischio. Molti degli Enti Locali che partecipano a questa rete sono inoltre membri della ‘Coalizione europea delle Città contro il Razzismo’, un'iniziativa lanciata dall'UNESCO nel 2004 allo scopo di sostenere le municipalità nei loro sforzi di migliorare le proprie politiche nella lotta contro il razzismo, la discriminazione e la xenofobia.

Tali iniziative si giustificano razionalmente con la semplice constatazione che nella struttura attuale delle nostre società, i comuni rappresentano degli attori-chiave al fine di assicurare che tutti i cittadini, senza differenze di nazionalità, origine etnica, culturale, sociale o religiosa, possano vivere con dignità, sicurezza e giustizia. Questioni legate al razzismo e alla lotta alla discriminazione sono imprescindibili in un discorso di promozione della sicurezza di una città e del benessere di tutta la comunità cittadina. Ebbene, in Sardegna, ci risulta che solo la Provincia di Cagliari, i Comuni di Sassari e Quartu e altri 7 comuni minori facciano parte della rete italiana degli Enti Locali.

(Davide Zaru)

lunedì 8 marzo 2010

Eravamo tutti in piazza, è passato solo un mese

In piazza un mese fa c’ero anch’io. C’ero perché ho sempre amato le grandi adunanze di popolo, perché mi piace guardare la gente quando sfila in gruppo e c’ero anche perché ho creduto fosse il caso di dare un segnale al Presidente Cappellacci e alla classe politica sarda tutta.
Era una mese fa e questo tempo mi ha dato modo di pensare che quella grande manifestazione sindacale doveva interessarmi anche in maniera personale, perché i sindacati dovrebbero difendere tutti i lavoratori. Ma cosa sono oggi i sindacati, che tipo di lavoratori difendono, come li difendono?
Ero lì a manifestare e ho visto che il richiamo era a un “nuovo piano di rinascita”. Ancora?
Ma è tutto qui quello che riescono a proporre i sindacati? Ma non si accorgono dei cambiamenti in atto nella società sarda? Non si può più pensare a un’industria che non porta in realtà nessun concreto beneficio alla collettività, ma che è solo un apparato inghiotti danaro, senza nessuna ricaduta a medio e lungo termine se non quelle negative per il grave impatto ambientale delle industrie pesanti sarde. Allora è giusto soccorrere adesso gli operai, ma sarebbe anche il momento di provare a fare una proposta innovativa, tipo: “teniamo aperti gli impianti altri cinque/dieci anni e nel contempo valutiamo cosa fare quando, fra cinque/dieci anni, li dovremmo chiudere perché per inquinamento e costi sono ormai ben fuori dal mercato”.
Ma allora perché usare solo vecchi e triti slogan? A parte contrattare posti di potere e offrire voti (mal ricompensati dal padroncino di turno…) sarebbe bello se ci fosse una fase costruttiva, non indirizzata unicamente a battere cassa illudendo i lavoratori.
E si sono accorti i sindacati che a soffrire in questa fase acuta non è solo l’operaio, ma è la classe media che sta perdendo il ruolo che aveva all’interno dell’equilibrio sociale? Quale risposta sanno dare a chi non ha più una propria realtà nella comunità?
È passato un mese, e sto ancora a farmi sempre le stesse domande. È stato molto bello vedere sfilare compatti tanti sardi insieme, resta de vedere infine quanto (e per chi) sia stato utile.
(Filippo Petrucci)

domenica 28 febbraio 2010

La promozione della qualità dei prodotti della Sardegna

Di recente, il Consiglio Regionale della Sardegna ha approvato all’unanimità la legge che propone la “promozione della qualità dei prodotti della Sardegna”. Tale normativa si pone l’intento di favorire il consumo dei prodotti agroalimentari di qualità, locali e a filiera corta nell’ambito della ristorazione collettiva, dell’attività agrituristica e del turismo rurale, in un’ottica di riduzione degli impatti ambientali. L’obiettivo è quello di incrementare l’offerta di prodotti agricoli e agroalimentari di origine regionale da parte della distribuzione e degli esercenti attività di ristorazione nell’ambito del territorio regionale,   garantendo inoltre maggiore informazione ai consumatori sull’origine e le specificità dei prodotti agricoli e agroalimentari regionali. Si punta inoltre ad incrementare la vendita diretta di questi prodotti da parte degli imprenditori agricoli ed in ultimo, ma non meno importante, favorire il consumo di alimenti privi di organismi geneticamente modificati (OGM). Al fine di raggiungere tali obiettivi la Regione promuove il consumo di prodotti tipici, DOP e IGP, all’interno dei servizi di ristorazione collettiva. Ciò significa che in tutte le mense prescolastiche, scolastiche, universitarie, ospedaliere, nelle residenze private convenzionate e nei ricoveri socio assistenziali si prediligeranno i suddetti prodotti, puntando sulla qualità, la tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Trovo che questa legge sia di fondamentale importanza (e non è un caso che sia stata approvata all’unanimità, senza differenze di schieramenti politici) perché dà nuova linfa ad un settore, quello dell’agricoltura, che nella nostra regione ha un potenziale immenso ma ancora scarsamente sviluppato. Saranno inoltre ancora più restrittivi i requisiti che dovranno avere gli agriturismo per esser definiti tali e ci saranno severi controlli dei servizi preposti (organi di Polizia, Ente Forestale, vigilanza ambientale della Regione e i servizi di igiene delle aziende sanitarie locali territorialmente competenti) al fine di garantire l’applicazione delle disposizioni di legge. Da non sottovalutare inoltre il vantaggio per noi consumatori; si avvertiva infatti l’esigenza di maggiore trasparenza e di chiarezza, perché svariate volte ci hanno “spacciato” prodotti di importazione come primizie sarde: ricordiamo per esempio il maialetto in arrivo dalla Romania o la bottarga del Brasile venduta come prodotto oristanese, oppure a quanti di noi è capitato di trovarsi servito al tavolo di un agriturismo un bel piatto di gnocchetti Barilla? La speranza è quella di riscoprire i nostri prodotti e magari dare spazio a nuove attività imprenditoriali che possano riportare in vita vecchie tradizioni ed antichi sapori. Tale condizione potrebbe inoltre favorire il campo della ricerca scientifica sui prodotti locali, sui prodotti di nicchia, che per via della loro peculiarità raramente sono regolamentati da norme o linee guida specifiche. Un esempio è sicuramente la bottarga, il “caviale” dei sardi, prodotto che in questo ultimo decennio ha visto aumentare vertiginosamente la sua richiesta sul mercato, esportata in tutto il mondo e particolarmente apprezzata nei Paesi orientali, col Giappone in prima fila. Ed è proprio per questo motivo che è nata l’esigenza nei produttori di unirsi in un consorzio, con l’intento di ottenere il marchio IGP (Indicazione di origine Protetta), puntando in particolar modo sulla ricerca e sul miglioramento del proprio prodotto. L’augurio è che questo sia solo l’inizio e che molte altre primizie locali possano arrivare sulle nostre tavole e sui mercati nazionale ed estero.

(Valeria Brandas)

domenica 21 febbraio 2010

Il fumo sull’Alcoa

La vicenda della Alcoa induce alcune riflessioni; di fronte ad una crisi così drammatica la classe politica stenta a trovare nuove soluzioni e indugia nel proporre vecchi percorsi che sono, essi stessi, alla base del fallimento di questa e di altre imprese industriali in Sardegna. Con un suo intervento su un giornale locale Francesco Pigliaru, ex assessore alla programmazione per buona parte del governo Soru, invita ad “andare oltre un modello di sviluppo tramontato che ha disperso un'enorme quantità di risorse pubbliche”; ciò che rende drammatica la disoccupazione è l’assenza “nuova politica di protezione di chi resta senza un lavoro” e propone di discutere sulla proposta di Pietro Inchino, presentata in Senato da circa un anno, dove centrale è “l'idea che chi licenzia poi contribuisca a finanziare il percorso del licenziato verso un nuovo lavoro. In questo modo l'impresa avrebbe tutto l'interesse a scegliere percorsi rapidi ed efficaci, e così facendo favorirebbe la crescita qualitativa dei servizi di orientamento e di formazione offerti nel territorio”. E’ evidente la consapevolezza che né l’energia a “basso costo” per l’Alcoa, né l’affrontare singolarmente i problemi di una singola impresa serva a risolvere la crisi dell’intero comparto dell’industria pesante in Sardegna. Ci sono altre riflessioni da fare? Una parte politica mostra una certa volontà di dibattito su quale sia l’energia migliore per lo sviluppo della Sardegna e quale possa essere (se c’è) il ruolo del nucleare. E’ forse utile dibattere prima di tutto su quanta energia sia utile allo sviluppo e al benessere de Sardi. Molti credono, anche fra i politici, che l’ostacolo a tale sviluppo e benessere vada ricercato nella insufficiente produzione di energia nell’ isola; i più attenti sono informati del fatto che la nostra produzione annua si aggira sui 12-13mila GWh/anno (circa l’8% in più del nostro consumo); quasi invece nessuno sa che la produzione annua di energia elettrica della regione Liguria, che per numero di abitanti più si avvicina alla Sardegna, pur essendo parte integrante del triangolo industriale italiano è di appena 6 mila e seicento GWh. E’ importante sapere che entrambe (Sardegna e Liguria) esportano extraregione direttamente o indirettamente (si considera esportazione indiretta quella di tutti i prodotti ad alto contenuto energetico) oltre la metà della loro produzione. La strada quindi di ulteriore produzione di energia elettrica sicuramente non è quella giusta. C’è il problema delle tariffe che abbiamo già affrontato in un altro editoriale; finché non si elimina la turbativa di mercato relativa all’acquisto, da parte del GSE (Gestore del Servizio Elettrico) di energia elettrica a tariffa incentivata (circa il doppio del prezzo corrente attraverso i meccanismi del CIP6 ed i certificati verdi) dall’ operatore dominante rappresentato dalla SARAS, non si può trovare nessuna soluzione credibile. Il decreto legge, sull’Alcoa, la cui discussione per la conversione in legge è in corso in Senato, mostra come anche a Roma si cerchino soluzioni parziali e non praticabili per la soluzione della crisi che investe la Sardegna. Perché tariffe agevolate all’Alcoa del Sulcis e non all’ Equipolimeri e alla Lorica di Ottana o anche ai Sign.ri Pistis e Paddeu e a tutte le piccole e medie imprese, anche agroalimentari, presenti in Sardegna? Per capire meglio la crisi dell’Alcoa vale la pena di ricordare che l’alluminio è un materiale totalmente riciclabile. Il suo recupero e riciclo, oltre a evitare l’estrazione da bauxite (che comporta la produzione annua di 1 500 000 ton/anno di rifiuti speciali, quali i fanghi rossi con ulteriori ed elevati costi economici e socio-sanitari), consente di risparmiare il 95% dell’energia richiesta per produrlo, partendo dalla materia prima. Infatti per ricavare dalla bauxite 1 kg. di alluminio sono necessari 14 kWh, mentre per ricavare 1 kg. di alluminio nuovo da quello riciclato servono solo 0,7 kWh di energia. Quindi solo a condizione che l’energia sia totalmente gratuita, il processo produttivo dell’Alcoa diventerebbe competitivo rispetto a quello della produzione di alluminio da riciclo; è ovvio che i costi economici e socio sanitari sarebbero sempre a carico degli abitanti del Sulcis e di tutta la Sardegna.  Il riciclo dell’alluminio costituisce un’importante attività economica, che dà lavoro a molti addetti: l’Italia è il primo produttore europeo di alluminio riciclato ed il terzo nel Mondo. Una nuova quota di tale produzione con conseguente occupazione dovrebbe essere assegnata alla Sardegna. Eviteremo così di difendere l’indifendibile anche sul piano economico e potremo promuovere la riconversione di un sistema produttivo a bassa efficienza o energivoro come la produzione di alluminio dalla bauxite. Per adesso molto fumo e troppe emissioni e neanche il maestrale riesce a rischiarare il cielo.

(Vincenzo Migaleddu)

domenica 7 febbraio 2010

L’ultima manifestazione?

Non ero il solo, tra gli osservatori di eventi sindacali, a pensare che quella del 2002 sarebbe stata l’ultima delle grandi manifestazioni a cui dal 1974 ci avevano abituato CgilCislUil. Per giustificarne la ripetitività della forma e degli obiettivi, e persino del percorso, mi era capitato di ricorrere ai parallelismi figurativi della processione religiosa, della parata degli eserciti, delle manifestazione per i caduti. Gli uomini vivono bisogni intensi di stare insieme e tenere sotto controllo il loro spazio, soprattutto quando i tempi si fanno difficili. Da più di quarant’anni, in Sardegna, le associazioni dei lavoratori dipendenti riuniscono i loro aderenti sui temi della difesa e dell’allargamento dei posti di lavoro. Partendo dal dato che altri settori di popolazione hanno gli stessi bisogni, assumono su di sé il compito della generale rappresentanza degli interessi. In Occidente il diritto al lavoro è universalmente riconosciuto dalle costituzioni e diventa un dovere per i governanti. In questo modo il metodo rivendicativo fa da pendant agli scopi, ai modi e ai risultati del governare. I dirigenti sindacali emergono così come le vestali dei bisogni fondamentali dei cittadini e, di più, amano rappresentarsi come i paladini dei valori sociali. Portatori di principi, non di responsabilità.

Principi e responsabilità sono arrivati a verifica in questo nuvoloso mattino cagliaritano negli umori delle migliaia di lavoratori ed ex-lavoratori che innalzavano le rosse bandiere della Cgil, il bianco dominante del tricolore della Cisl, l’azzurro intenso della Uil. Il moltiplicarsi delle bandiere è il fatto immediatamente rilevabile del lunghissimo corteo. Insieme all’età dei partecipanti: sono i padri che manifestano per i figli. I giovani operai dell’Alcoa, giustamente piazzati nelle prime file della posizione d’onore della manifestazione, erano scatenati nei loro rituali celebrativi della forza e della resistenza, con i caschi che percuotono ritmicamente l’asfalto, l’urlo “non cederemo mai!” lanciato contro le finestre dei palazzi del centro e il fumo sciamanico che a tratti nasconde il gruppo come a evocarne la forza.

La vertenza generale del sindacato ogni volta contiene una concreta emergenza della grande industria, volta a volta proveniente da Villacidro, nel passato, da Ottana (sempre), da Porto Torrese e Macchiareddu (spesso), e soprattutto dal Sulcis. I giovani sulcitani sono cresciuti a pane e manifestazioni sindacali come i ragazzi di Sedilo a pane e corse a cavallo in vista della sartiglia.

La vertenza Sardegna è incappata in un interlocutore lontano come irraggiungibile  - per la lotta dei lavoratori - può essere Pittsburg da Portovesme. L’universale convinzione che la metallurgia primaria deve essere lavorata il più possibile a bordo di miniera, la sensibilità europea verso l’ambiente, le logiche sovranazionali delle grandi company e le regole della concorrenza interne all’UE hanno creato un cocktail di motivazioni il cui circolo vizioso sta rendendo quasi impossibile la positiva conclusione di una vertenza sarda che, però, è anche veneta, e che sta per diventare pure spagnola nei tre siti iberici dell’Alcoa.

Se l’azienda insisterà nell’abbandono, la prevedibile soluzione sarà che lo stato italiano si doterà nuovamente di una qualche forma di partecipazione statale alla gestione delle imprese oppure che tutti qui in Sardegna, a iniziare dagli operai, ci si metta l’anima in pace prendendo atto che con questo tipo di industrie abbiamo chiuso e che occorre sul serio impegnarsi nella direzione di un sano sviluppo locale. E in questo caso gli operai verrebbero riqualificati in funzione del risanamento delle aree inquinate. In fondo è il messaggio delle due bare per le loro industrie portate rispettivamente dagli operai dell’Alcoa e della Vilnys di Porto Torres. Che forse stessimo celebrando il funerale grandioso della grande industria in Sardegna?

(Salvatore Cubeddu)

domenica 31 gennaio 2010

‘Quegli imbroglioni dei giovani sardi che vivono fuori Sardegna’ vs. ‘quei pelandroni che se ne stanno in Sardegna’

E’ incorniciato di delicati fiorellini azzurri lo scambio di opinioni tra giovani sardi che vivono in Sardegna e giovani sardi che vivono fuori. Date uno sguardo agli ultimi numeri delle interviste doppie di “Sa chida sarda”, scaricabili dal blog tramasdeamistade.blogspot.com. Alla domanda: “che cosa ne pensi dei giovani sardi che vivono fuori?”, il sardo che vive in Sardegna, al posto di rispondere: “sbruffoni, egoisti che andavano bene in inglese a scuola, mentre ora tocca a me fare la spesa”, replica sulla linea: “persone che non hanno avuto l’opportunità di trovare una realizzazione nell’isola, e a costo di grandi sacrifici cercano una crescita personale lontano dai propri cari”. Viceversa, i giovani che vivono fuori definiscono i loro corrispondenti nell’isola: “eroi della quotidianità, ragazzi e ragazze che fanno grandi sacrifici per spendere la loro professionalità in un’isola in cui i giovani vengono trattati alternativamente come bamboccioni o come ‘i figli di…’”. Insomma, il punto di incontro tra sardi che stano fuori e sardi che stanno dentro è rappresentato dalla parola “sacrifici”. Ma non solo. I nostri intervistati, ovunque essi vivano, nell’isola, in continente o all’estero, mostrano un attaccamento speciale all’isola e all’identità sarda, così come concordano sul fatto che ciascuno possa dare un proprio contributo alla crescita e allo sviluppo della Sardegna. In cosa consiste questo contributo? I sardi che stanno all’estero o nella penisola sono consapevoli del fatto che i sardi che stanno in Sardegna difendono quotidianamente la posizione della categoria dei giovani, nel senso che intraprendono attività imprenditoriali, fanno gli insegnanti, animano la cultura dello sport sardo, affollano cinema e locali. Alcuni temerari fanno addirittura politica attiva. I sardi che vivono in Sardegna sanno bene che i loro coetanei che abitano oltre Tirreno sono impegnati in settori di alta specializzazione, lavorano nell’industria degli affari internazionali, fanno ricerca. I sardi che sono fuori sono di solito ben lieti di trasmettere la loro esperienza ai loro familiari e amici.

Signori!, come non salutare con ottimismo questa simpatia reciproca e rinata unione di intenti tra sardi che stanno fuori e sardi che stanno dentro? E, soprattutto, come sviluppare ulteriormente un dibattito tra queste due categorie di giovani sardi?

Tramas de Amistade sta cercando, ormai da un anno, di mettere in contatto i sardi ‘della diaspora’ con i giovani sardi delle città e dei paesi sardi, e di permettere un confronto reciproco delle proprie esperienze. Gli argomenti di conversazione non mancano. Alcuni dei giovani che stanno in Sardegna che abbiamo intervistato non nascondono di pensare di continuo ad un’esperienza extra-isolana, anche per un periodo limitato di tempo. E cercano consigli. Alcuni sardi che stanno fuori si dicono disposti a tornare, ma a condizione di poter utilizzare in Sardegna le conoscenze acquisite fuori e di poter continuare a crescere. Anche loro sono affamati di consigli. La scommessa successiva è mettere i sardi che stanno in Sardegna e i sardi che stanno fuori attorno ad uno stesso tavolo – eventualmente virtuale - e farli parlare del futuro della Sardegna. Continuate a seguire, su queste pagine, il seguito di questo dibattito.

                                                                                                                                    (Davide Zaru)

giovedì 14 gennaio 2010

Giovani sardi ed identità: cronaca di un incontro ad Olbia

Parlare di identità sarda e del rapporto “ locale-globale” agli studenti delle superiori di Olbia è stato davvero interessante e fruttuoso perché Olbia è la città più multietnica della Sardegna. Basta scorrere l'elenco dei cognomi nei registri di classe per capire che è una città di provenienze: non solo quelle tradizionali galluresi e muntagnine, campane, pugliesi e genovesi ma anche le recenti immigrazioni europee, africane, mondiali del turismo, dell'industria, del commercio e dei servizi, oltre a quell'immigrazione che non è più “territoriale” e che gestisce investimenti e transazioni.

Da questa mescolanza deriva un arcipelago “giovani” pluridentitario in una città che non ha tradizionalmente una forte o resistente identità locale. Questo carattere distintivo espone a un'ambivalenza: da un lato una città aperta dove le diverse culture convivono, dall'altro una realtà di convivenza statica in cui le diverse provenienze non riescono a costituire un'identità nuova e in cammino, e che invece rischia di omogeneizzarsi al modello dominante della cultura di massa nelle espressioni del consumismo, degli pseudo miti e valori e dei luoghi comuni.

Nel dibattito risultava dunque interessante intervenire con una domanda: in tale contesto quale possibile  identità locale in produttiva relazione con l'identità globale? In un primo momento la discussione rischiava di impelagarsi nella solita contrapposizione tra “sono uno studente sardo, orgoglioso di esserlo” e “sono un cittadino del mondo e la sardità non mi dice nulla”. Ma elaborando il concetto di identità veniva fuori che nella vita concreta dei giovani studenti non c'era né identità locale né identità globale perché dei due termini insisteva una concezione vaga e astratta, non riferita all'esperienza reale: il locale si identificava con il passato, il globale era un insieme di stimoli pubblicitari e consumistici.

Il dibattito si orientava per ciò sulla precisazione dei termini e prendeva corpo la definizione di  “locale” come “Territorio- Olbia-Gallura, come risorse e attività economiche, come produzione di merce e di senso, come presenze industriali e artigiane; ed entrava in campo: turismo e quale turismo, ambiente, vini, sughero, granito, agroalimentare, civiltà degli stazzi, vivibilità della città, occupazione e disoccupazione, livello d'istruzione, forme della criminalità, nuove povertà, porto e aeroporto, sviluppo edilizio e altro. Insomma il locale prendeva corpo nella sua complessità reale con un'ultima constatazione: il futuro di gran parte dei giovani dipende da come elaborare positivamente il “locale”. Dunque territorialità e capitale umano sono dispositivi di futuro per i giovani. Così gli studenti  si sentivano situati in una spazialità e temporalità attiva che apriva immediatamente e necessariamente il rapporto col globale. Infatti lo sviluppo locale, come produzione materiale e culturale, non poteva che porsi in relazione col globale nella logica di una economia e di una cultura aperta.

A questo punto interveniva il termine “glocale” per specificare la modalità con cui il “locale” dà una sua forma particolare al “globale” nell'esperienza di azione e di pensiero, di produzione e di comunicazione, di partecipazione e di responsabilità. Precisati i termini della relazione “locale-globale” venne meno l’attribuzione conflittuale ma soprattutto venne a chiarirsi la funzione positiva della relazione nella concreta esperienza di vita individuale e sociale.

(Bachisio  Bandinu)