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domenica 7 febbraio 2010

L’ultima manifestazione?

Non ero il solo, tra gli osservatori di eventi sindacali, a pensare che quella del 2002 sarebbe stata l’ultima delle grandi manifestazioni a cui dal 1974 ci avevano abituato CgilCislUil. Per giustificarne la ripetitività della forma e degli obiettivi, e persino del percorso, mi era capitato di ricorrere ai parallelismi figurativi della processione religiosa, della parata degli eserciti, delle manifestazione per i caduti. Gli uomini vivono bisogni intensi di stare insieme e tenere sotto controllo il loro spazio, soprattutto quando i tempi si fanno difficili. Da più di quarant’anni, in Sardegna, le associazioni dei lavoratori dipendenti riuniscono i loro aderenti sui temi della difesa e dell’allargamento dei posti di lavoro. Partendo dal dato che altri settori di popolazione hanno gli stessi bisogni, assumono su di sé il compito della generale rappresentanza degli interessi. In Occidente il diritto al lavoro è universalmente riconosciuto dalle costituzioni e diventa un dovere per i governanti. In questo modo il metodo rivendicativo fa da pendant agli scopi, ai modi e ai risultati del governare. I dirigenti sindacali emergono così come le vestali dei bisogni fondamentali dei cittadini e, di più, amano rappresentarsi come i paladini dei valori sociali. Portatori di principi, non di responsabilità.

Principi e responsabilità sono arrivati a verifica in questo nuvoloso mattino cagliaritano negli umori delle migliaia di lavoratori ed ex-lavoratori che innalzavano le rosse bandiere della Cgil, il bianco dominante del tricolore della Cisl, l’azzurro intenso della Uil. Il moltiplicarsi delle bandiere è il fatto immediatamente rilevabile del lunghissimo corteo. Insieme all’età dei partecipanti: sono i padri che manifestano per i figli. I giovani operai dell’Alcoa, giustamente piazzati nelle prime file della posizione d’onore della manifestazione, erano scatenati nei loro rituali celebrativi della forza e della resistenza, con i caschi che percuotono ritmicamente l’asfalto, l’urlo “non cederemo mai!” lanciato contro le finestre dei palazzi del centro e il fumo sciamanico che a tratti nasconde il gruppo come a evocarne la forza.

La vertenza generale del sindacato ogni volta contiene una concreta emergenza della grande industria, volta a volta proveniente da Villacidro, nel passato, da Ottana (sempre), da Porto Torrese e Macchiareddu (spesso), e soprattutto dal Sulcis. I giovani sulcitani sono cresciuti a pane e manifestazioni sindacali come i ragazzi di Sedilo a pane e corse a cavallo in vista della sartiglia.

La vertenza Sardegna è incappata in un interlocutore lontano come irraggiungibile  - per la lotta dei lavoratori - può essere Pittsburg da Portovesme. L’universale convinzione che la metallurgia primaria deve essere lavorata il più possibile a bordo di miniera, la sensibilità europea verso l’ambiente, le logiche sovranazionali delle grandi company e le regole della concorrenza interne all’UE hanno creato un cocktail di motivazioni il cui circolo vizioso sta rendendo quasi impossibile la positiva conclusione di una vertenza sarda che, però, è anche veneta, e che sta per diventare pure spagnola nei tre siti iberici dell’Alcoa.

Se l’azienda insisterà nell’abbandono, la prevedibile soluzione sarà che lo stato italiano si doterà nuovamente di una qualche forma di partecipazione statale alla gestione delle imprese oppure che tutti qui in Sardegna, a iniziare dagli operai, ci si metta l’anima in pace prendendo atto che con questo tipo di industrie abbiamo chiuso e che occorre sul serio impegnarsi nella direzione di un sano sviluppo locale. E in questo caso gli operai verrebbero riqualificati in funzione del risanamento delle aree inquinate. In fondo è il messaggio delle due bare per le loro industrie portate rispettivamente dagli operai dell’Alcoa e della Vilnys di Porto Torres. Che forse stessimo celebrando il funerale grandioso della grande industria in Sardegna?

(Salvatore Cubeddu)

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