Tramas è un'organizzazione indipendente che ha due obiettivi:
1) mettere in rete giovani sardi, studenti, ricercatori e
professionisti, operanti nelle città e nei paesi della Sardegna, in continente e all'estero;
2) mettere in cantiere iniziative di analisi e azione per lo sviluppo
della Sardegna.


mercoledì 30 dicembre 2009

Chi ha paura del nuovo? Bisogna avere paura del brutto!

Questo editoriale rappresenta un tentativo di iniziare un dibattito sul “costruire in Sardegna”, dove il termine costruire si applica dal singolo oggetto edilizio al territorio nel suo insieme. Il tema è complesso e poche righe non bastano certo ad affrontarlo in maniera esauriente. Per questo vi propongo di iniziare dal livello micro, cioè quello dei singoli edifici. Anche in Sardegna è da poco entrato in vigore il “Piano Casa”, e comunque già da tempo si assiste ad uno sviluppo dell’attività edilizia. Chi è contrario al Piano Casa e ad un’eccessiva edificazione tira sempre in ballo l’ambiente, mentre i fautori del costruire ritengono evidentemente che l’Italia sia una Repubblica fondata sull’edilizia dal momento che dalle loro parole sembra che se non si costruisce non si possa rilanciare l’economia del Paese. Come per le automobili. Anche bilanciando i pro e ai contro dell’edificazione, spesso si perde il punto di vista principale della questione, e cioè chi è il fruitore reale di ciò che viene costruito: l’uomo come individuo che realizza la propria abitazione, e la società come insieme di uomini che vivono o in una città, la quale costituisce l’esito di tante singole realizzazioni, o comunque in un territorio che è il risultato di situazioni puntuali. Quello che veramente manca è il senso del comune (inteso come ciò che appartiene e allo stesso tempo contribuisce alla formazione di una comunità), ciò che rende un insieme di case una città con una sua identità e non una esposizione di abitazioni “stile fiera”. A proposito della fiera, avete presente il padiglione dell’arredamento dove vengono presentati i diversi ambienti della casa? Ecco, un insieme di ambienti non fanno casa così
come non è detto che un insieme di case facciano città. Questo per dire che pochi oggi realizzano le proprie abitazioni pensando a come queste siano in grado realmente di “fare città”. E ”fare città” pensando alla comunità significa realizzare abitazioni belle, funzionali, a basso impatto energetico. Significa anche finire le case. Pare infatti che i colori più alla moda nelle periferie dei paesi della Sardegna siano il color mattone e il color intonaco, dal momento che nessuno si preoccupa di concludere i lavori (nonostante la legge lo preveda e gli amministratori possano imporre di l’intonacatura e la tinteggiatura della abitazioni).E’ evidente che in Sardegna nonostante l’esistenza di Piani paesaggistici, territoriali e comunali, e per quanto si tenti di calare delle regole dall’alto, il particolare prevale sull’interesse generale. Basta una passeggiata anche nei paesi più piccoli per accorgersi di come i centri storici siano compatti, razionali, realizzati secondo poche regole ma in cui si capisce che ogni singola abitazione pur con la sua identità fa parte di un insieme. Le periferie sono invece costituite da case sparpagliate, senza senso, senza gusto. E’ come se prima si costruisse con altruismo senza rinunciare a se stessi, tanto che le case raccontavano anche la classe sociale di appartenenza. Ora invece si costruisce in modo egoistico e particolaristico con l’unico risultato di un bruttismo generale che ottiene il paradossale effetto di omologare anziché far emergere le differenze.
Tutto questo per dire che il problema non è un Piano urbanistico, che prevede magari l’espansione di una parte del centro urbano, o il Piano Casa in sé. Il problema è che si realizzano edifici brutti, perché manca completamente l’educazione al bello. Perché si proibisce di toccare i centri storici, ruderi inagibili compresi, ma al di fuori si può realizzare qualsiasi cosa venga in mente. Voilà la giustificazione del titolo. Se i regolamenti edilizi di oggi fossero stati in vigore in passato non ci sarebbe stata l’evoluzione né dell’urbanistica né dell’architettura, e nessuna città come Roma o Parigi con le loro stratificazioni storiche,
frutto di demolizioni, sventramenti e nuove realizzazioni. Forse bisognerebbe mettere da parte la paura del nuovo e consentire il recupero dei centri storici anche attraverso edifici di nuova costruzione, purché realizzati con criterio e con quello spirito di “fare città” di cui si parlava prima. O permettere la modernizzazione di edifici antichi per renderli vivibili secondo i modi di vita di oggi. Bisognerebbe educare al bello i cittadini anche in considerazione del fatto che la bellezza spesso attira altra bellezza e se si iniziasse ad incentivare un’edilizia migliore sia dal punto di vista tecnico che da quello estetico, allora probabilmente tornerebbe in vigore la regola non scritta del “buon senso” e del “senso comune” che con semplicità ha guidato l’uomo nell’edificazione di case e centri urbani.
(Francesca Zaru)

Proprietà della terra, diritti umani e identità della comunità

“Famene fintzas a coghere non est famene malu”: questo il rimprovero gentile di chi mi sorprendeva da bambino con un cucchiaio ed un pezzo di pane in mano in procinto di assaggiare il sugo di pomodoro ancora in preparazione in pentola. Questa frase si somma a tutta una serie di espressioni di uso quotidiano (“passata la fame del ’40”, “Sardegna, granaio di Roma”…) che sembrano disegnare una Sardegna contemporanea che avrebbe definitivamente fatto pace con la sua terra, che riuscirebbe a garantire il fabbisogno alimentare interno diventando addirittura terra di esportazione di primizie pregiate. Se la Sardegna, verosimilmente, non rischia la carestia, la realtà della sua agricoltura è più complessa, come rileva il 16° Rapporto CRENOS sull’economia dell’isola, il quale dedica ampio spazio al tema della struttura industriale nel comparto agroalimentare. Al di là dell’analisi della produttività dell’agricoltura sarda, alcune
tematiche sono oggetto di un più ampio dibattito, anche politico, in Sardegna, quali la promozione dell’agricoltura biologica o il sostegno delle aziende agricole. Altre, tuttavia, sembrano invece sfuggire al dibattito generale.
Ad esempio, non sono riuscito, da una rapida consultazione su internet, a trovare informazioni recenti su un caso sollevato circa due anni fa sui blog di Beppe Grillo e Oliviero Beha e relativo alla situazione di circa 5.000 aziende agricole, molte delle quali a Decimoputzu, i cui proprietari contestavano gli interessi mostruosi applicati dal Banco di Sardegna/Banca Popolare dell’Emilia Romagna su mutui che credevano agevolati, e che in alcuni casi hanno visto il pignoramento di tutti i loro beni.
Un’altra tematica poco esplorata dai media sardi riguarda la cessione su larga scala di proprietà agricole a grossi soggetti privati operanti in più paesi del mondo (ossia, transnazionali). Il tema è potenzialmente estremamente sensibile per la nostra terra, se non altro in relazione ad un dato incontestabile: l’ampia disponibilità, in Sardegna, di terra scarsamente popolata.
Ebbene, un contributo recente a questo dibattito viene dal Relatore speciale delle Nazioni unite sul diritto umano all’alimentazione. La carica di Relatore speciale sul dititto all’alimentazione, attualmente affidata al giurista belga Prof. Olivier de Schutter, prevede l’identificazione di misure al livello internazionale e nazionale tali da permettere l’effettivo godimento da parte di tutti del diritto all’alimentazione, un diritto umano riconosciuto nel Patto sui diritti economici, sociali e culturali, un trattato internazionale vincolante anche l’Italia.
Il Relatore speciale si è espresso ripetutamente – la scorsa settimana a Roma al Forum mondiale della FAO sulla sicurezza alimentare - sul nesso che intercorre tra il fenomeno delle acquisizioni su larga scala della terra e la crisi globale del mercato alimentare del 2008, di cui l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari costituisce una dimensione importante. Secondo de Schutter, gli investimenti agrari su larga scala possono rappresentare delle importanti opportunità di sviluppo. Tuttavia, essi possono anche avere un impatto negativo sul godimento dei diritti umani, nel momento in cui implicano lo sfratto di contadini “i quali non hanno un dirittoformale di possesso della terra che pur hanno utilizzato per decenni”, oppure “la perdita di accesso alla terra per popolazioni autoctone o di popolazioni pastorali”, la competizione per accesso all’acqua e minori garanzie per la sicurezza alimentare.
(Dorando)
Maggiori informazioni sul lavoro del Relatore specwww2.ohchr.org/english/issues/food/index.htm

Una politica per le piccole e medie imprese in Sardegna

Se la Sardegna attraversa un periodo di crisi il comparto industriale ne è sicuramente colpito in
maniera particolare. Volendo tralasciare i problemi legati alla grande industria che sono ormai,
vista la crisi occupazionale, di dominio pubblico e sotto i riflettori della opinione pubblica, vorrei
invece parlare della vera ossatura del sistema industriale sardo, quelle piccole e medie imprese,
spesso a conduzione familiare, che cercano da sole di affrontare questa crisi.
Più del 98% delle imprese in Sardegna sono piccole o micro imprese. Bisogna riconoscere alle
imprese sarde la grande capacità di affrontare le situazioni di crisi, si può dire anzi che le imprese in Sardegna sono ormai abituate a vivere in una situazione di crisi cronicizzata.
Nonostante i limiti dovuti all’insularità, la Sardegna è riuscita ad esprimere eccellenze in diversi
settori industriali. Il settore alimentare, ad esempio, è ricco di storie di successo, di imprenditori che hanno conquistato importanti fette di mercato in diverse parti del mondo.
E’ però fondamentale che questo tessuto imprenditoriale venga sostenuto in un momento così
difficile per l’economia mondiale. Se il 2009 è stato affrontato dalle imprese sarde senza troppi
scossoni, il 2010 rischia invece di essere il vero annus horribilis per tutte queste realtà medio piccole.
Per dare delle prospettive agli imprenditori ognuno in Sardegna deve prendersi le proprie
responsabilità. La politica deve fare la sua parte, le istituzioni finanziarie devono dare fiducia ad un comparto che non può essere strangolato dalle leggi del credito e gli imprenditori devono fare il proprio lavoro senza aver paura di investire.
In un momento in cui le risorse finanziarie sono limitate è importante che la Regione ragioni in
maniera strategica sostenendo quelle iniziative che nel territorio possono creare sviluppo ed
occupazione. Gli imprenditori da parte loro dovrebbero puntare su nuovi settori, ad esempio la
green economy, dove veramente la Sardegna può rappresentare l’avanguardia di un processo
che volente o nolente l’Europa tutta deve affrontare.Nell’immediato le Banche devono garantire
il credito traghettando le imprese fuori da questa crisi. Imprese sane con ordini all’attivo saranno costrette a fallire se non verranno attivate delle linee di credito agevolate, le Banche dovrebbero tornare a fidarsi dei propri clienti e allargare le maglie ormai strette a cause degli indicatori di rating delle imprese.
Una grande opportunità per le imprese sarde possono essere i fondi europei che per iprogrammi
dedicati alle PMI prevedono cofinanziamenti dal 50% al 75% per arrivare con il Settimo Programma Quadro a finanziare anche il 100% delle attività relative alla ricerca e sviluppo. Per
utilizzare al meglio queste risorse bisogna creare un circuito virtuoso che coinvolga le Associazioni di imprenditori, le Camere di Commercio e gli enti relazionati all’attività imprenditoriale. Sarà invece compito della Regione garantire un utilizzo ottimale dei fondi comunitari indiretti che nell’ultimo periodo finanziario sono stati utilizzati per 84% attraverso i POR, comunque uno dei risultati migliori nel mezzogiorno. Nei prossimi mesi il Parlamento Europeo discuterà la riforma dei fondi strutturali, la Regione Sardegna dovrà far sentire la sua voce per assicurare alle imprese sarde il sostegno di quei fondi che assicurano la coesione e lo sviluppo nelle Regioni europee.
(Leonardo Pinna)

Il nucleare e la (inverosimile) rivoluzione del mercato dell’energia elettrica in Sardegna

Per capire le ragioni del costo dell’energia in Sardegna e della procedura di infrazione aperta della Commissione europea sull’illegittimità delle agevolazioni tariffarie concesse all’Alcoa (circa 400 milioni di euro), dobbiamo rifarci alle dichiarazioni che il 5 febbraio 2009 il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, ha rilasciato in un'audizione in Commissione Attività produttive della Camera, circa l'incentivazione di energie rinnovabili e assimilate, le cosiddette “Cip 6”: ''Permangono le distorsioni derivanti dal fatto di sovvenzionare la produzione di energia elettrica da fonti assimilate e non rinnovabili in misura di gran lunga maggiore rispetto a quelle rinnovabili; nel 2007 il costo per il Gestore servizi elettrici (GSE) è stato di 3 miliardi e 746 milioni di euro per l'energia ritirata da fonti assimilate e di 1 miliardo e 482 milioni di euro per l'energia da fonti rinnovabili; (…) Tali distorsioni continueranno a gravare sui consumatori finali almeno fino alla scadenza naturale delle convenzioni, che dovrebbe avvenire non prima di 7-10 anni, anche se la loro incidenza tenderà progressivamente a diminuire''.

Secondo i dati del GSE del luglio 2009 la crisi produttiva che ha colpito la penisola italiana con la contrazione della domanda di energia elettrica ha prodotto a luglio di quest’anno un’ulteriore riduzione del prezzo di vendita che è sceso, tanto nelle regioni del centro che del nord, allo stesso livello dei primi mesi del 2005, cioè a 49 euro/MWh e al Sud a 45 euro/MWh, raggiungendo il minimo storico.

In Sardegna la Sarlux usufruisce dell'incentivo CIP6, raggiungendo circa la metà della produzione media giornaliera sarda ( circa 600 Mw/1200Mw) e godendo così della posizione di operatore dominante nel mercato isolano; si spiega così come, pur con la contrazione della domanda dovuta alla crisi dell’industria energivora (Alcoa compresa), il costo dell’energia si sia mantenuto a 88,92 euro/MWh , quasi il doppio rispetto alla penisola. A ben vedere i costi di produzione dell’energia elettrica in Sardegna sono più bassi che nel resto della penisola: produrre dalla combustione dei residui della raffinazione del petrolio – come nel caso della Sarlux - è un guadagno assoluto (portare a smaltimento con inertizzazione è un costo che viene evitato; i costi sociali e sanitari che le popolazioni di Sarroch, dei paesi e delle città del circondario sono costrette a pagare non entrano in nessun bilancio). Avrà Scajola la forza di rompere questo giocattolo imponendo il nucleare? In particolare una centrale nucleare EPR (Reattore nucleare europeo ad acqua pressurizzata) da 1600 MW che ha la necessità di produrre nelle ore di minore richiesta almeno 800 MW per il mantenimento della massa critica (concentrazione e disposizione di atomi con nuclei fissili per cui la reazione a catena si mantiene stabile ed il numero di neutroni presente nel sistema non varia). Tale produzione metterebbe in discussione la posizione della Sarlux come operatore dominante. Al contempo, richiederebbe investimenti finanziari e di tempo non facilmente quantizzabili; la costruzione di una centrale nucleare è caratterizzata da una incertezza dei costi (dal 150-300% in più rispetto a quelli previsti) e dei tempi (fino al doppio degli anni previsti); ciò porta la costruzione di una centrale elettrica nucleare fuori convenienza in un mercato libero e non condizionato da aiuti di stato.

A queste considerazioni in tema di energia si ricollega un’altra decisione politica – bipartisan – relativa agli orientamenti regionali in materia di sviluppo industriale e di gestione dei rifiuti speciali.

L’11 febbraio 2009 la Giunta Soru ha varato un accordo di programma con la Portovesme Srl, per complessivi 300 milioni, teso al raddoppio della produzione di zinco a partire dalla lavorazione dei rifiuti tossici di importazione, denominati “fumi di acciaieria”. Dal 24 aprile la Giunta Cappellacci porta avanti il progetto. Solo per la discarica necessaria allo stoccaggio dei residui sono previsti 60 milioni di euro (la Regione concorrerebbe con circa 50) per contenere 300mila tonnellate circa di rifiuti residui alla lavorazione dei fumi (adesso sono circa 180mila). Mi pongo allora due domande. C’è bisogno di nuovi pericoli in un’area come il Sulcis, già pesantemente inquinata ? Non c’è il rischio di creare corsie preferenziali per il futuro smaltimento di rifiuti nocivi e forse radioattivi provenienti da altre regioni d’Italia o d’Europa ?.


Vincenzo Migaleddu

Per ulteriori approfondimenti, vedi. la presentazione svolta da Vincenzo Migaleddu al convegno “Ambiente, energia e salute per uno sviluppo sostenibile” organizzato dall’Associazione Nino Carrus a Borore il 27 febbraio 2009 (link).