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lunedì 26 aprile 2010

Sa die de sa Sardigna, de sos italianos liberos, de sos casteddaios

Una settimana di feste. Stavolta sono proprio allineate, dalla domenica al sabato: dal 25 aprile al primo maggio passando per il 28 aprile, sa die de sa Sardigna. Non saranno care forse nello stesso modo a tutti, anche se tutte dovrebbero interessarci. Come uomini liberi, come sardi, come cagliaritani. Ma, forse non tutti siamo uomini liberi, festeggiarci come sardi non so a quanti interessi, il dichiararsi cristiano è sempre più un fatto di minoranza.
In realtà noi istituiamo queste feste - celebriamo chi è morto con le armi in pugno o si è ribellato o gli hanno tagliato la testa - appunto perché, in questo caso, la gran parte degli italiani aveva appoggiato il fascismo e fatta propria la sua guerra, perché da secoli in Sardegna si era accettato di venire padroneggiati dallo straniero, ed era raro morire per la propria fede. Servire il potente, ingraziarsi il padrone, sacrificare agli dei del tempo era (è?) la regola, la costante aurea mediocritas secondo cui viviamo troppo spesso la quotidianità.
Li abbiamo conosciuti coloro che appoggiarono il fascismo, ci erano anche …. padri, nonni, zii. E – perché no? – le nostre madri, nonne, zie. Forse, ci sarebbero stati anche i nostri fratelli, forse … anche noi. O no? Chi può dirlo? Resistere all’onda non è facile, in pochi scelgono per convinzione una scomoda libertà, non pochi seguono l’onda, il senso comune, la convenienza dei tempi.
In quel 28 aprile 1794 probabilmente saremmo andati ad assaltare il castello di Cagliari, per liberare, con quei due prigionieri, anche la nostra storia. Almeno per un giorno, per qualche mese, forse un anno. Non diversamente, in fondo, da quello che succede a tutti i popoli per i quali la responsabilità di essere liberi è un peso e la soggezione un comodo esercizio quotidiano. I sardi hanno scoperto da poco di essere stati gloriosi e partecipi della grande rivoluzione, persino meglio e più di tanti altri in Italia. Ma la studio della storia può essere persino ingombrante, non solo per i forestieri – ministeri, assessorati, giornali, intellettuali – che pretendono che sia giusto negarcelo. Si pensi all’inno “Procurad’e moderare”: scritto nel 1795 e gridato nelle
piazze e nelle campagne sarde per qualche anno, se ne persero le tracce per tanto tempo. Proibito: per paura, dai piemontesi e poi dagli italiani; per vergogna, dai nostri, e non solo dai reazionari. Lo riscoprì e pubblicò Sebastiano Satta, esattamente un secolo dopo. Nel frattempo era conosciuto, tradotto e trascritto nei libri in Francia, in Germania e in Inghilterra. E tutti i viaggiatori che nell’800 visitano la Sardegna parlano di quei fatti di cui da noi non si parlava più, di quel 28 aprile 1794, e di prima e di dopo. Ma sempre lo tenne presente la dinastia dei Savoia. Che, nonostante le richieste, mai perdonò veramente… Sapeva che i sardi
avevano ragione. La festa di Sant’Efisio è ingombrante. Le transenne condizionano il traffico già dieci giorni prima. Come se la municipalità temesse le altre due feste. Come se la carta del santo potesse venire giuocata contro la democrazia tra i popoli e la libertà dei sardi. Come se … Efisio non fosse morto per un’altra libertà, la più grande, la rinuncia alla vita per quell’ebreo marginale che è stato Gesù di Nazareth. Ma: che ce ne facciamo di questi resistenti, dei martiri folli, dei popoli in rivolta? A che servono le feste?Evidentemente servono, visto che ci sono dappertutto e da sempre. Forse … è perché ci sono questi esempi. (Salvatore Cubeddu)

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