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domenica 12 giugno 2011

Quale futuro per la Sanità Sarda? (di Roberto Prost)

Economia, lavoro, risorse umane, turismo, territorio... Quando si parla del futuro della nostra isola i punti strategici sembrano

chiari e sempre gli stessi. Eppure nello scacchiere del gioco per il potere politico, forse la pedina più importante è quella della sanità. Una pedina che fa girare soldi, tanti soldi, che coinvolge tanti “lavoratori-elettori” e tanti “pazienti-elettori”. Per questo di sanità si parla sempre più spesso in prossimità delle elezioni, e per questo tutte le forze politiche tentano in qualche modo di accaparrarsi un pezzo di una sanità divisa in mille fette.

Tentativi di fare ordine in passato ne abbiamo avuti diversi, con risultati non sempre soddisfacenti. L’ultimo assessore alla sanità che ha portato avanti un tentativo di riforma è stata la Dirindin, ma è difficile valutare il suo lavoro a distanza di tempo, perché risultati sostanziali non sembra che ce ne siano stati. Questioni irrisolte e debiti ereditati sono passati a loro volta in eredità a Liori: da un governo all’altro non ci possiamo aspettare grandi cambiamenti, forse perché non c’è il tempo per realizzarli, o forse perché non c’è la volontà.

Si parlava di riorganizzazione, di chiudere ospedali periferici e aprirne nuovi nei grandi centri urbani, eliminare le prestazioni che appesantivano il pubblico e trasferirle al privato, eleggere alcuni reparti come centri di riferimento per il trattamento di alcune patologie, stringere sulle spese del privato imponendo dei tetti sul budget delle strutture accreditate. Cosa è cambiato?

Non ci sono soldi: non si costruiscono nuovi ospedali, a parte il San Raffaele a Olbia che è privato, non si chiudono i vecchi (non sarebbe possibile!). I reparti di eccellenza ci sono, ma stringono i denti per continuare a mantenere un livello alto assistenziale, mentre le risorse economiche e umane, spesso mal gestite, finiscono dirottate ad alimentare reparti che sembrano baracconi da circo, tutto fuorché reparti di ospedale. Gli ospedali periferici sono aperti, ma nella sostanza ridimensionati al punto che sono iniziati “viaggi della speranza” intraregionali! Troppo pochi parti e si chiude l’ostetricia, male che vada partorisci in ambulanza... Basta poco per rendesi conto che la situazione non è delle più allegre: un giro in corsia con i letti nel corridoio, e il malumore degli infermieri costretti a lavorare in spazi e strutture inadeguate, può essere sufficiente.

La sanità privata, accreditata e convenzionata, non naviga in acque migliori. Anche qui non ci sono soldi e i privati, a cui vengono chieste prestazioni di pari livello con il pubblico, sono costretti a mettere in cassa integrazione i dipendenti.

Sono passati i tempi in cui le Case di Cura convenzionate erano in mano a famiglie i cui rampolli godevano di prestigio e autorità, in un intreccio di stretti rapporti con la politica, di cui potevano influenzare le decisioni. Pirastu, Floris, Corona, Ragazzo, Santa Cruz, chi più chi meno hanno gestito un potere e tanti soldi. Ma qui lo scenario è cambiato. I figli non sempre all’altezza dei genitori, medici illustri ma anche intelligenti amministratori, hanno dovuto fare i conti con

2un sistema che ha lasciato sempre meno spazio all’eccellenza e alla qualità dell’assistenza, per fare posto a logiche di tipo imprenditoriale. Le cliniche non potevano essere gestite come una piccola azienda familiare. Gli ultimi anni lo dimostrano ampiamente: fallimenti (Case di cura Lay e Maria Ausiliatrice) e cessioni a multinazionali (le cliniche di Quartu e San Salvatore di Cagliari) con la promessa di immettere capitali per ristrutturazioni e riorganizzazioni varie. Promesse, appunto. Il risultato è la cassa integrazione per centinaia di dipendenti: operai, uscieri, ausiliari, infermieri professionali, e medici. Tutti coinvolti, non si salva nessuno.

Pubblico e privato sono le due facce della stessa medaglia. Pensando al futuro della sanità in Sardegna bisogna tener conto che le risorse economiche limitate vanno gestite in modo adeguato, cercando di non sbilanciare l’equilibrio precario tra sanità pubblica e privata. Sono scelte politiche: privilegiare l’una o l’altra però ha delle conseguenze importanti, economiche e sociali. Se puntiamo tutto sul pubblico bisogna mettere mano ad una riforma di sostanza che và portata avanti fino in fondo per non correre il rischio di perdere realtà economiche significative che lavorano sul territorio, o di investire soldi in un pozzo senza fondo. Se si dà spazio al privato invece si corre il rischio di completare l’opera di colonizzazione che ormai è già iniziata, e la sanità sarda sarà influenzata dai consigli di amministrazione delle multinazionali estere.

Il ministro della Sanità nella sua ultima visita in Sardegna ci rimproverava di avere troppi posti letto per numero di abitanti. Come? Troppi posti letto? Ma non stiamo per aprire un nuovo ospedale a Olbia?

Dietro le affermazioni del ministro ci potrebbe essere una strategia, un piano non deciso da noi ovviamente, ma che viene dall’alto. Per dare posti letto al San Raffaele, non potendone creare di nuovi (ce ne sono già troppi) bisogna prenderli da qualche parte.

Il Governo ritiene che abbiamo bisogno di RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali). Presto sarà fatto: le cliniche di Cagliari saranno trasformate in RSA, che richiedono meno personale e meno soldi, e i posti letto convenzionati saranno dirottati al San Raffaele a Olbia.

Le prestazioni di un certo livello saranno assegnate a poche strutture private, che si specializzeranno nel trattamento di patologie più remunerative di pazienti benestanti. La scelta della Gallura da parte di Don Verzè appare in questo senso strategica e anche l’idea di trasformare l’ospedale Marino di Cagliari in una clinica per anziani facoltosi non sembra così pazza, del resto un ex albergo trasformato in ospedale può essere ritrasformato in qualcosa di simile ad un residence con piscina, che c’è già, mancano solo un paio di mattonelle.

Questo non è il futuro, questo sta già accadendo. Rimane il fatto che la politica deve decidere se far pendere l’ago della bilancia verso la sanità pubblica o verso quella privata, ma in questo senso forse il governo regionale un’idea precisa c’è l’ha già.

Intanto rimane lo scontento dei cittadini, utenti finali di un sistema che funziona a corrente alternata, e più passa il tempo più necessita di una vera e propria scossa.

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