Tramas è un'organizzazione indipendente che ha due obiettivi:
1) mettere in rete giovani sardi, studenti, ricercatori e
professionisti, operanti nelle città e nei paesi della Sardegna, in continente e all'estero;
2) mettere in cantiere iniziative di analisi e azione per lo sviluppo
della Sardegna.


giovedì 23 giugno 2011

La lezione di R.P. ai giovani sardi, di Davide Zaru

Questa mattina ho preso un caffè con R.P., dottorando in diritto internazionale e attivista per i diritti umani, proveniente da un Paese dell’Africa sub-sahariana. Ci siamo visti ai Bagni di Paquis di Ginevra.

Piccola parentesi. I bagni di Paquis sono un posto straordinario. Si tratta di un’infrastruttura degli anni ’50 per la balneazione sul lago Lemano. Sono aperti tutto l’anno e gestititi da una cooperativa. D’inverno ospitano uno spazio benessere con sauna, hammam, bagni di vapore, massaggi, a costi di ingresso politici. D’estate, lo stabilimento offre cabine, sdrai, e i tradizionali servizi per gli amanti del lago. Tutto l’anno, la buvette dei bagni serve la sera la migliore fonduta di formaggio della città e a pranzo un piatto del giorno a circa nove euro (quasi un regalo, considerato che ieri ho speso il corrispondente di venti euro per un ingresso al cinema, e in prima fila non c’era Penelope Cruz, ma orde di bambini chiassosi). Lo stabilimento è semplice ma funzionale, si vanta di attrarre persone da “tutte le nicchie della società”, e soprattutto non si respira quell’aria da “voglio essere Miami” che caratterizza alcuni stabilimenti al Poetto.

Tornando a R.P., questa mattina mi ha regalato alcune perle di saggezza sulla diaspora dei giovani del Paese migrati all’estero, che a mio avviso, con tutti i distinguo, sono applicabili anche alla analoga situazione di tanti giovani europei.

R.P. lavora da una decina di anni a Ginevra con un’organizzazione non- governativa per la promozione dei diritti delle minoranze. Sua moglie, biologa, continua a vivere nella capitale, con i loro due figli. R.P. progettava di tornare al suo paese da diversi anni, una volta terminata la sua tesi di dottorato. Ora che la tesi è stata consegnata, il rimpatrio è imminente. Gli chiedo cosa voglia dire tornare dopo quindici anni di Europa. La risposta mi fulmina: “Io, una volta tornato, voglio fare politica attiva. Sono in una posizione di forza, perché ho idee e motivazione, ma ho maturato la mia esperienza senza mai chiedere niente a nessuno. Non devo nessun favore a politici locali, né al mio clan, né alle istituzioni”.

Ora, nella mia esperienza, è abbastanza comune sentire simili parole da parte di un giovane africano che vive in Europa, soprattutto se si considerano i privilegi della classe dirigente nell’Africa sub-sahariana: tutti vogliono fare politica, come da noi che tutti vogliono lavorare in Regione. Tuttavia, mi colpisce l’approccio: R.P. vuole tornare nel suo paese e contribuire al rinnovamento, il che significa intavolare una discussione critica con l’attuale classe dirigente. Ma non necessariamente scalzare questa classe dirigente: “Nel mio Paese la politica non si muove; l’attuale leadership governa praticamente da trent’anni giocando sull’equilibrio perfetto della rappresentazione di tutte le etnie; negli anni passati, ci sono stati tanti tentativi, invano, di promuovere un’opposizione. Buona parte delle persone attive in questo tentativo sono state rispettivamente integrate nella pubblica amministrazione, perché bisogna pur campare, o sono state convinte adoccuparsi del proprio orticello, piuttosto che della cosa pubblica. Quindi, la sola soluzione sostenibile è cercare di convincere l’attuale classe dirigente ad avviare una transizione”.

R.P. mi parla a lungo della diaspora dei giovani del suo Paese che si recano nei Paesi maggiormente sviluppati per studiare. Si tratta di giovani che fanno sacrifici immensi, e all’estero si organizzano in comunità che svolgono certamente funzioni di aiuto mutuo e solidale. Ma, soprattutto, si tratta di organizzazioni che promuovono il dibattito e l’azione per lo sviluppo del Paese di origine. R.P me ne cita alcune: un’associazione di giovani studenti in giurisprudenza, che ha realizzato una banca-dati delle professionalità di camerunensi residenti in Europa. Grazie a questa banca dati, co-operative e piccole realtà imprenditoriali del Paese riescono a rintracciare giovani professionisti in Europa che possono collaborare ad esempio in progetti di import-export o turistici. “Jeunes Suisse- Afrique”, che presenta progetti di cooperazione allo sviluppo alle istituzioni svizzere, per poi finanziare a cascata micro-progetti di cooperazione ideati e messi in opera da organizzazioni locali radicate nel Paese, che difficilmente hanno i mezzi per partecipare a bandi internazionali. L’ultimo progetto andato in porto: l’apertura di una radio locale grazie al contributo del Cantone di Ginevra (per un investimento di poche centinaia di euro). Altre organizzazioni, più politiche, fanno comunicazione ‘critica’ su quanto succede nel Paese e organizzano mobilitazioni e raccolte firme.

Ma forse, la cosa che più mi ha colpito, è che queste organizzazioni mantengono un contatto continuo con il Paese di origine. Principalmente, con giovani, e si tratta di giovani che magari in passato hanno vissuto all’estero e sono tornati al Paese, dove lavorano come medici, insegnano nelle scuole, si affermano come leader delle loro comunità. Un po’ come nella nostra Tramas de amistade, giovani africani che vivono fuori e giovani che sono rimasti (o sono tornati) hanno avviato un dialogo, che a volte diventa collaborazione concreta su progetti e idee di sviluppo. In altre parole, gli uni hanno bisogno degli altri.

domenica 12 giugno 2011

Bonas novas dae domo nostra (di Salvatore Cubeddu)

Bonas novas dae domo nostra (Tramas de Amistade, Casteddu, Sardigna)....

Filippo Petrucci, primo presidente di Tramas de Amistade, ed Enrico Lobina, suo esponente, sono stati eletti nel Consiglio comunale di Cagliari. A loro, con i complimenti di tutti noi, l’augurio di ottenere, nel loro sicuro impegno, i risultati attesi dai cittadini e le conseguenti gratificazioni per se stessi.

Non rivelo un segreto spiacevole: quando, tra la fine del novembre 2010 e l’inizio del dicembre, Filippo manifestò l’aspirazione ad interessarsi dell’amministrazione della città fui tra coloro che considerava giusto e corretto che i giovani non chiedessero il permesso a nessuno per entrare in politica e che si muovessero seguendo le giuste regole per affermare il loro diritto al protagonismo. In realtà nelle mie parole c’era pure ‘in cauda venenum’: “Difficilmente, in politica, ti dicono ‘accomodati!’ quando chiedi di arrivare nei ruoli che contano”. Sono passati sei mesi e credo che saranno indimenticabili per Filippo, così come per tanti, a Cagliari e oltre.

Per Enrico il discorso è simile solo perché la sua età avanza di qualche anno quella dei trenta. Lui è un ‘politico’ già di lungo corso, avendo rappresentato e volantinato le idee della sinistra ancora con i pantaloni corti, via via nella scuola e nei quartieri del centro storico. L’arrivo sui banchi del Comune è arrivato al tempo giusto e in un contesto che migliore non poteva aspettarsi, con un sindaco poco più che coetaneo che vince le elezioni nella sorpresa più generale. Filippo, Enrico e Massimo Zedda, in tre non arrivano ai cent’anni, quando i sessantenni/settantenni di oggi esibiscono – se e quando possono – pigli e voglie giovanili. ***** ‘Un nuovo Consiglio con tanti giovani’, titolano i giornali. Ma i giornali di questi giorni continuano anche a parlarci dei giovani combattenti per la libertà in Medio Oriente, dei ragazzi che muoiono ogni venerdì in Siria e di tanti altri che si riuniscono a Plaza del Sol a Madrid, a Plaza de Catalugna a Barçellona, con il movimento che si estende nelle piazze d’Europa. Negli ultimi due anni la generazione dei trentenni ha conquistato numerosi comuni dell’interno della Sardegna. I giovani occidentali cominciano a prendere atto di un processo già leggibile più di vent’anni fa: avranno per sé un mondo meno ricco dei loro genitori, di quella generazione che Hosbawn aveva descritto come partecipe dell’ ‘età dell’oro’.

Tempo ‘per’ i giovani, dunque. Tempo ‘dei’ giovani. Comporta innanzitutto il veloce superamento dell’assessorato alle politiche giovanili così come è stato inteso finora, chiara espressione del senso di colpa e del paternalismo dei non- giovani. Tutto sta in quelle proposizioni, ‘per’ e ‘di’. Ci sarebbe da immaginare, infatti, che dei giovani al governo si rivolgessero ai propri coetanei, presenti a

2Cagliari o collegati da tutto il mondo, in cui studiano e lavorano, tramite gli innumerevoli media: “Picciocus, esti s’ora nosta. Movei a fai sa cittadi de Casteddu chi disigiaus ...”. Quale potrà essere la Cagliari ‘ri-costruita’ dai giovani cagliaritani presenti e di quelli richiamati a progettarla da parte di un’amministrazione fantasiosa, aperta, trasparente e attiva? Il progetto di Cagliari ‘ri-costruita’ dai giovani può ricevere un’attenzione che travalica i confini dello schieramento fatto vincere da elettori evidentemente disponibili alle novità.

Abbiamo vissuto una campagna elettorale seria pur presentandosi leggera, combattuta mentre restava civile, ricca di propositi nel mentre gli schieramenti rimanevano alternativi. Ciò è merito anche dei perdenti, dell’avere candidato a sindaco il migliore e il più adatto al ruolo (e pure il più esterno) del loro schieramento e... , forse proprio per questo, penalizzato. Ma, si dice, è l’aria (questo andrebbe discusso) che è cambiata. E i nostri amici del centro-sinistra saranno d’accordo che il risultato è troppo alto rispetto ai meriti finora acquisiti. E’ stata loro affidata una cambiale in bianco e - l’abbiano presente – quella fiducia non tarderà ad arrivare a riscossione.

Tre punti del programma meritano una nuova attenzione: il lavoro, la cultura e il rapporto di Cagliari con la Sardegna. Massimo Zedda, prima e dopo le elezioni, ha giustamente richiamato il problema della disoccupazione giovanile. Non ha detto (né, forse, poteva) che un sindaco può fare ben poco per creare una diretta occupazione stabile. Normalmente, infatti, l’ente pubblico risponde al problema secondo la ricetta di ottant’anni fa, cioè con i ‘cantieri di lavoro’, anche se oggi si chiamano in tanti altri modi. E’ spesso successo che la sinistra al governo apra i ‘cantieri’ e, una volta all’opposizione, si batta per la stabilizzazione di quei posti. L’esito frequente è l’aumento di posti improduttivi nella pubblica amministrazione in cui si entra per merito di lotta e non per concorso, a svantaggio dei cittadini delle immediatamente successive generazioni. Si tratta del meccanismo per cui la grandissima parte dei bilanci dei nostri comuni, delle inutili province e della Regione sono destinati ai loro dipendenti. Non si danno soluzioni facili per il lavoro dei giovani se essi non pongono, a se stessi prima di tutto, la questione di produrre ricchezza nell’agricoltura, nell’industria e nei servizi legati alla produzione di beni. L’intermediazione, in tutte le sue dimensioni economiche sociali politiche e culturali, è la normale funzione di tutte le capitali, e quindi anche di Cagliari quale capoluogo di una regione che ha vissuto tanti periodi coloniali. Ma siamo al centro del discorso: cosa c’è oltre l’intermediazione subalterna (che, recentemente, ha trasferito alle company internazionali persino gran parte del commercio)? E’ possibile parlare a Cagliari di agricoltura che non siano gli uffici dell’assessorato regionale e degli enti? Di industria e terziario produttivo?

Cagliari si mangia il bilancio della Sardegna, di cui lascia qualche osso alle altre città e gli ultimi avanzi ai paesi. Sarebbe utile e urgente avere un sng che riferisca ogni anno ‘ dove vanno a finire e a chi giovano’ i finanziamenti del bilancio regionale. Quando - e si leggano le dichiarazioni dei giorni scorsi – autorevoli politici e uomini di cultura di Sassari e Nuoro affermano che “Cagliari non è una città sarda”, non stanno rifiutando Cagliari, le stanno invece chiedendo

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di farsi carico non solo delle risorse ma pure dei doveri di una capitale: portare a sintesi gi interessi di tutti.

Cagliari non può continuare a crescere in abitanti asciugando le giovani generazioni dei piccoli comuni. La balla che perde abitanti e che pertanto sono necessari dei nuovi quartieri nasconde la questione del rapporto con i comuni dell’hinterland e delle case malandate, sfitte e vuote del suo interno. Cagliari deve rendere ai paesi quel lustro che essi gli offrono ogni anno nella processione di Sant’Efisio, deve fare da vetrina internazionale attraverso i mercati civici del meglio dei loro prodotti, Cagliari deve essere la porta dove si educano i turisti a conoscere in maniera autentica e non folklorica l’insieme della Sardegna.

Cagliari ha bisogno di una politica culturale vera, con le università e le associazioni che si collegano con le consorelle delle altre città e con i comuni dell’Isola, per immaginare e costruire un tempo migliore per la Sardegna tutta. Un tempo veramente ‘sardo’, non da ultimi dell’ultimo stato cui le vicende della storia ci hanno legato.

“Sardinia divisa est in partes duas”, avrebbe scritto Cesare se avesse dovuto combattere contro i sardo-cartaginesi-romani di allora una guerra per impedirgli di fondare la città di Torres o di spostare il capoluogo sardo da Nora a Cagliari. Invece l’ha fatto durante una quindicina di giorni di riposo al termine della cruenta lotta contro Pompeo, concludendo vittoriosamente il ‘de bello civili’. Al pari della Gallia (“divisa in partes tres” ) noi sardi, ‘privati del ‘de bello sardico’, dobbiamo al Caio Giulio la futura Sassari e la Cagliari capitale. E’ vero, continuò la ‘guerra barbaricina’ iniziata contro i cartaginesi ... e quella componente che in altri modi continuò a farsi sentire. Ma è argomento per altre volte, per altri articoli.

“Holiday Island” (di Fabrizio Palazzari)

La stagione estiva sta per partire e ancora non sappiamo se il Bonus Sardo Vacanza e la “Flotta sarda”- con le sue due poderose navi, la “Dimonios” e la “Scintu” – la salveranno dal caro-traghetti. Però, nelle copertine delle riviste di viaggio più blasonate, non mancano sin da adesso le spiagge bianche della nostra isola e, pertanto, non è difficile immaginare, anche per quest’anno, interminabili file di auto e camper lungo i moli di Porto Torres ed Olbia Isola Bianca. Parte da questa visione patinata di “isola delle vacanze”, di ciambella lineare di seconde case, di turismo “mordi e fuggi”, il progetto artistico Holiday Island di due giovani artisti sardi trapiantati a Berlino e del Sardisches Kulturzentrum Berlin (il Centro di Cultura Sarda di Berlino, ndr). L’idea è, in breve, quella di proporre ad alcuni artisti internazionali, che vivono e lavorano a Berlino, di partire per una “non-vacanza” in Sardegna, calandosi per una settimana nella realtà della vita quotidiana nell’isola, il più possibile spoglia dalle immagini da depliant che le sono più note. Citare criticamente un’isola “delle vacanze” nel titolo del progetto, suggerendo un’idea ironica e vagamente take-away dello spostarsi nell’isola, sottolinea la volontà degli autori, Giusy Sanna e Giovanni Casu (protagonisti dell’intervista doppia di questa settimana) di capire e raccontare come viene percepita la Sardegna al di fuori dei circuiti turistici, usando il linguaggio dell’arte contemporanea. Il progetto di Holidays Island ha nel suo DNA la fortunata esperienza di Genau!Sardinia, la mostra berlinese tenutasi nel maggio del 2010 che presentava una selezione di artisti sardi legati alla capitale tedesca (www.genau.sardanet.de). Il nome “Genau”, che in tedesco significa “esatto”, riassumeva in una parola, sia per il suo significato che per la sua forte assonanza con il sardo, la finalità di quel progetto: indagare il sentire comune di un gruppo di giovani artisti sardi formatisi in un contesto mediterraneo, indubbiamente peculiare come quello sardo, e il loro sviluppo nel tessuto sociale e culturale europeo. Holidays Island segue le linee guida di Genau! cercando di riuscire nell’intento di mostrare la Sardegna nel suo presente, integrata nella società contemporanea. La scelta di far vivere dei giovani artisti in un piccolo paese, lontano dalla Sardegna da cartolina, risponde all’esigenza di fare della contrapposizione tra i ritmi della grande metropoli e la calma, la lentezza e la coesione dei piccoli paesi un valore fondamentale. Ad ognuno di essi verrà chiesto di raccontare l’esperienza attraverso la produzione di un’opera, una sorta di cronaca o diario di viaggio, che possa restituire utilmente una visione alternativa, forse imprevedibile del territorio. Holidays Island si terrà a Samatzai, piccolo centro del medio Campidano, dall’8 al 15 giugno 2011 e gli artisti, selezionati dalla curatrice Giusy Sanna, saranno Nuno Vicente (Portogallo), Ewa Surowiec (Polonia) e Bryn Chainey (Australia). Il risultato del progetto verrà riassunto in una mostra che avrà luogo a Berlino nel prossimo inverno. Sarà l’occasione per presentare sia il lavoro svolto, che per discutere delle altre realtà artistiche presenti in Europa e delle loro peculiarità. Riuscire a parlare della Sardegna senza citare direttamente patrimonio naturalistico e folklore, rappresenta la vera sfida del progetto per

2creare un nuovo immaginario, fatto, per quanto possibile, di innovazione e ricerca artistica, in linea con la scena mondiale dell’arte.

Sardinia - an outsider's first impression (di Barbara Grosse)

I had heard about Sardinia before. It was supposed to be beautiful, with people speaking another language than other Italians, who look differently even, very kind people who eat the best food on earth (or at least in Europe), and who don't cherish much the values of public transport (according to friends who had tried to travel the island via the public bus system and ended up stranded in the middle of nowhere).

From what I was told, I imagined the Sardinian people to be immensely proud of their great past as successors of the mysterious Nuraghic people, and their rebellious quest for independence, no matter how enduring and opressive their occupiers were.

I expected this self-confidence to be visible in particular through a use of the language: Sardinian. Soon I found out it was not so. The use of Sardinian among the majority of Sardinians seems to be restricted to ordering the "Ichnusa" beer, thereby preserving the ancient name of the island. I come from a country, Austria, where the public use of a minority language has been a major concern for minorities for a long time, a right enscribed in a State Treaty and in the constitution. The contentious issue here was whether the criterion for determining the bilingual character of a village which requires the authorities to install bilingual place signs, should be set at 10%, 17,5% or 25% of minority population (currently the second option prevails). Sardinians on the other hand would have hardly any difficulty argueing that they constitute the majority of people living in Sardinia . But there seems to be no interest by the authorities to even encourage the use of the language. What is the reason for this lack of awareness and this carelessness? Why is there no public interest like in Ireland , where people almost forgot their own ancient language, but are nowadays encouraged, through schooling and cultural initiatives, to practice their language?

Likewise, I expected Sardinians to be experts in the culture of the Nuraghic people, and was surprised to learn that no, there are no school trips organised to the astonishingly well preserved ruins of the Nuraghic settlements, and there are no adventure trips organised at full moon with bonfire and spiritual experience guaranteed. The Nuraghic vestiges could be a Stonehenge for Sardinia , only that there is even much more of it available around the island. How can it be that I had never even heard of the Nuraghic people in my life before coming to Sardinia ? Noone had spread the word.

Likewise, I expected Sardinians to be experts in the culture of the Nuraghic people, and was surprised to learn that no, there are no school trips organised to the astonishingly well preserved ruins of the Nuraghic settlements, and there are no adventure trips organised at full moon with bonfire and spiritual experience

2guaranteed. The Nuraghic vestiges could be a Stonehenge for Sardinia , only that there is even much more of it available around the island. How can it be that I had never even heard of the Nuraghic people in my life before coming to Sardinia ? Noone had spread the word.

Le notizie di un giorno, di ogni giorno, di ogni anno ....... da più di trent’anni!!! (di Salvatore Cubeddu)


L’editoriale di questa settimana commenta le notizie di un solo giorno, l’ultimo tra quelli di cui è disponibile la rassegna stampa della Giunta regionale: venerdì 15 aprile, avantieri. Contrariamente alle nostre abitudini, le riportiamo tutte, le notizie politiche ed economiche disponibili. E citiamo il quotidiano da cui le abbiamo ‘copia - incollate’. Fanno ventidue pagine di fogli A4, quando normalmente la nostra selezione settimanale opera su più di cento pagine. Ma quelle di un solo giorno bastano e avanzano per descrivere la nostra condizione di sardi. Riguardano venticinque temi, dall’ambiente alla politica industriale, dalla pastorizia e l’agricoltura alle servitù militari, dal processo per l’eolico rapito dagli uomini della P3 alle manifestazioni operaie, dai lavoratori che muoiono avvelenati dal gas a quelli che hanno passato la settimana di fronte ai Parlamenti di Roma e di Cagliari... In un giorno tutta la stampa sarda ci descrive la Sardegna in movimento. Verso dove?

Questo non lo dice, la stampa sarda. Forse perché bisognerebbe spiegare da che cosa il tutto si sia originato. Cosa che non fa neanche la restante classe dirigente ... perché non lo sa, perché non lo vuol dire, perché quel che sa è da sapere solo da parte di pochi, perché ... L’abbiamo detto altre volte: la Sardegna è il luogo dove delle cose veramente importanti si tace.

Vogliamo mettere di seguito alcune osservazioni: 1) la situazione sarda non subisce mutazioni qualitative dei propri problemi da più di trent’anni, da quel 1978 che ha visto tramontare, con il blocco dello sviluppo petrolchimico e minerario – metallurgico, l’industria dei poli di sviluppo costruita nei precedenti vent’anni. La classe operaia sarda e i sindacati CgilCislUil sono da tre decenni costretti a fare la guardia al bidone di un’industria che nessuno fuori della Sardegna vuole e che qui si difende in assenza di alternative. Loro non fanno e noi non facciamo. Rivendichiamo, tutti al seguito degli operai di Porto Torres e di Portovesme (Ottana ormai tace perché i cimiteri sono muti). La politica sarda, tutta, non riesce ad avere un piano B, a decidere se disfarsi di questa inquinante palla al piede (ma, cosa fare degli operai? come rispondere alla delegittimazione conseguente? come reggere lo scontro son i sindacati?) e imboccare con decisione un nuovo chiaro percorso. 2). L’unico che ha dimostrato di avere le idee chiare e di saperle perseguire è stato Renato Soru e, contraddittoriamente, la sua maggioranza: difendere per quanto possibile il passato, ma puntare subito sul nuovo: tecnologia, ambiente, cultura, risorse territoriali. Gli equilibri di trent’anni sono stati però turbati dalla sua azione, ai vari livelli inter – nazionali e

2regionale, e le forze locali si sono coalizzate contro la sua proposta di cambiamento chiamando a capo del proprio esercito elettorale Silvio Berlusconi e la sua force d’éfrappe. Persino la Chiesa - guidata dall’Arcivescovo di Cagliari mons. Giuseppe Mani, in cambio dell’acquisto dell’assessorato regionale alla cultura - ha partecipato alla guerra elettorale dell’inizio del 2009. 3). Con la sconfitta di Soru si è ricongiunta l’opera di conquista della Sardegna dall’esterno con la subordinazione totale del nuovo governo cagliaritano-centrico. Il caso dell’energia eolica rappresenta la cartina al tornasole: invasione di nuovi impianti con le autorizzazioni romane (aspetto istituzionale), capitali di dubbia provenienza mediati da personaggi locali in relazione con la politica italiana e sarda (la colonizzazione e gli agenti stranieri di origine sarda: Carboni e soci), rinuncia al nostro interesse economico alternativo (se si guadagna tanto nell’eolico e nelle energie alternative, perché non va avanti l’ente energetico regionale?), tipica e tradizionale reazione dell’opinione pubblica (lamenti, pure momenti di mobilitazione, ma senza continuità e obiettivi positivi da perseguire e vincere). Il caso della Tirrenia potrebbe interpretarsi negli stessi termini. La Sardegna è abbandonata e asservita. I sardi si stanno esaurendo in lotte che non vinceranno e che, se vincessero, li porterebbero nelle condizioni che sono all’origine della situazione che permane da trent’anni. Il ciclo si chiude, il serpente si morde la coda. 4). Bisogna tagliare la testa al serpente, è l’unica possibilità di andare avanti. I sardi devono riscattarsi dal loro peccato originale rinunciando a mangiare la mela della subalternità offertagli dal serpente tentatore. I peccati dei sardi si condensano nella rinuncia ad essere liberi. I nostri peccati sono tutti di omissione. Pensiamoci ... in questa settimana santa. La pasqua può arrivare anche per noi.

Pentzamentos a su sero (di Salvatore Cubeddu)


Pensieri migratori. Telegiornale di ieri: profughi tunisini e libici, ospitati da qualche giorno nel nuovo villaggio Mineo nei pressi di Catania, saltano i reticolati e fuggono verso la campagna ripresi dalle telecamere. Vedendoli arrivare, l’anziano contadino rientra dai campi, dice al giornalista che ha paura. Il pastore difende il gregge, anche lui senza spiegare cosa possa temere. Verosimilmente quei giovani pensano solo a raggiungere la meta verso la quale sono diretti da quando sono partiti, e questa forse non è in Sicilia, e probabilmente neanche in Italia. Ma Pantelleria rappresenta l’ingresso più vicino, e in Italia è quindi d’obbligo passare.

Possiamo figurarci quelle situazioni – il migrante, il contadino, il pastore – ospitati dallo Stato in territorio sardo. Di questo parlano i nostri giornali comunicando la notizia dei duemila che ci spetterebbero, ragionando sulle preoccupazioni degli assessori, del perché questa presenza non deve ostacolare il turismo e quindi i profughi dovrebbero venire ospitati nelle scuole. Però le scuole non sono attrezzate di servizi igienici e cucine adatte alla bisogna. Ma pure quegli alberghi normalmente vuoti andrebbero bene, comunque bisogna vedere chi, quanto e quando paga, tenendo conto di quel cattivo pagatore che è lo Stato, come sperimentato nella costa adriatica con i profughi del terremoto aquilano.

I sardi, si sa, sono generosi con i disgraziati, soprattutto quelli di casa d’altri, e specialmente quando possono misurare il proprio impegno come e insieme ad altre regioni d’Italia. L’abbiamo visto qualche anno fa per la spazzatura di Napoli e qualche settimana fa con il 150° dell’unità d’Italia. In quest’ultimo caso nessuno ci ha considerato, solo qualche nostro intellettuale ha rivendicato una primogenitura alla quale nessun personaggio o istituzione italiana ha fatto cenno. Semplicemente non siamo esistiti nel passato nonostante i nostri bisnonni avessero per primi sperimentato la leva obbligatoria e si siano fatti ammazzar più degli altri nelle guerre. Quale meraviglia se noi per loro non esistiamo tuttora. Abbiamo fatto la figura del figlio bastardo che invoca la considerazione da una mamma che non lo vuole. Ma a noi basta esserci con l’Italia, non importa se ultimi, purché non ci lascino soli.

E ancora nei tg di queste sere. La Toscana non vuole tunisini e libici in casa propria, ma solo extracomunitari che siano stars americane o lords inglesi. In Campania non sono previsti campi d’accoglienza. Letizia Moratti non ne vuole a Milano, almeno finché lei si trova in campagna elettorale (ma questo non lo dice!). Alemanno non ne vuole a Roma, ma allora la presidentessa del Lazio chiede uno sconto nei numeri, motivando: già ci occupiamo dei Rom e poi il primo maggio attendiamo tanti pellegrini per la beatificazione di Giovanni Paolo II. Strano ragionamento: non dovrebbe la santità spingere alla maggiore accoglienza dei profughi? Eh, la Chiesa....!

2Appunto, non ci resta che la Chiesa per risolvere i problemi dell’Italia e della Sardegna. Difatti: il primo a venire intervistato è stato il responsabile diocesano della Charitas, che doverosamente ci ha invitati all’accoglienza e a prepararci anche culturalmente alla prossima ospitalità. La cosa va presa sul serio, anche perché rappresenta la soluzione migliore: permette di mantenere a Cagliari la quasi totalità dei nuovi ospiti (e il ragionamento, come vedremo, potrà estendersi anche alle altre città sarde).

I profughi non ci fanno niente nelle nostre campagne, non c’è lavoro, si sentirebbero chiusi in un lager, i contatti culturali sarebbero meno vantaggiosi che in un loro mescolarsi con un ambiente abituato ai grandi numeri della popolazione. Quello urbano, appunto. Ma il motivo vero è che solo in città, a iniziare appunto da Cagliari, esiste un’istituzione, appunto la Chiesa, che possiede grandi spazi attrezzati per l’accoglienza. Per di più, vuoti.

Facciamo degli esempi, anche se sarà necessario fare uno screening più accurato e preciso. Ma i casi già consentono il ragionamento: il convento di Bonaria, i conventi di Santa Rosalia e di San Francesco da Paola nel quartiere di Marina, l’immenso locale delle Suore di San Vincenzo con l’entrata in via dei Falconi (dove, tra l’altro, è ospite un altro migrante, l’Arcivescovo di Cagliari mons. Giuseppe Mani), il Collegio S. Efisio e la parte vuota del seminario in via Cadello. Ad occhio e croce, mi diceva un amico dell’ambiente, si avrebbero subito disponibili un cinquecento posti, già attrezzati in quanto da sempre destinati all’accoglienza. E l’esempi della generosità sarebbe comunicativo, altri posti letto verrebbero fuori dalla gara di generosità all’accoglienza. I laici finalmente stupiti, farebbero anche loro a gara a incanalare l’8 per mille della vicina dichiarazione dei redditi verso una Chiesa che per prima applica ciò che propone agli altri. L’esempio cagliaritano farebbe da guida all’archidiocesi sassarese e a quella arborense. E volete che Nuoro, Ozieri, Tempio, Alghero – Bosa e Iglesias starebbero dietro? Figuriamoci, una volta che scattasse il cristiano impegno a superarsi nella solidarietà. Pensate alla vecchie suore, agli antichi frati e agli anziani preti, tutti insieme, a prodigarsi verso questi giovani musulmani da servire generosamente senza chiedere loro conto se non della correttezza umana.

Me lo immagino, il vecchio Giuseppe Mani, invocare dalla ricalcitrante Congregazione romana dei vescovi il prolungamento della sua permanenza nella sede di Cagliari, non – sul serio, senza secondi fini – non per proseguire nei sui commerci di costruttore di vuoti collegi per giovanotti rampanti, ma per finalmente dedicare il proprio amore per i soldi alla causa per la quale i soldi sono stati dati e vengono offerti alla Chiesa: servire, appunto, chi ne ha bisogno.

Straordinari eterogenesi dei fini! O felix culpa! Del francese Sarkozy e del famigerato Gheddafi: offrire un’occasione di conversione per la Chiesa cagliaritana. Riparare ai torti e, passando per la quaresima, arrivare alla Pasqua di resurrezione!

Una pioggia di stelle ( di Maria Michela Deriu)


Ventotto stelle d'argento e sei stelle d'oro, questo è l'eccezionale risultato della 536 Sartiglia oristanese. Su Componidori, uomo – dio per un giorno, benedice la folla con “sa pippia ‘e maiu”, il tradizionale mazzo di pervinche, scettro bucolico, simbolo della primavera.

Tante stelle, secondo la tradizione, sono sicuro presagio di ricchezza e fecondità. La giostra importata dalla Spagna dalla corte arborense, come lo dimostra il nome Sortia che significa anello, in periodo giudicale non aveva alcun nesso col carnevale. La tradizione narra che un certo canonico Giovanni Dessì, per distogliere la popolazione dal peccare durante il periodo di carnevale, lasciasse al gremio dei contadini un terreno di sua proprietà per assicurare lo svolgersi della giostra nei tempi a venire. In periodo spagnolo, nell'anno del Signore 1547 il clavario cittadino di Oristano destinava 1 lire e 5 soldi per i festeggiamenti della Sartiglia in onore di Carlo V. Il 3 marzo 1572, in pieno periodo di carnevale, il clavario cittadino devolve ben 2 lire e cinque scudi per la Sartiglia in omaggio alla nascita di Ferdinando d'Asburgo.

La Sartiglia entra nella storia e rimane inalterata nella sua regalità fino ai nostri giorni. Il canonico Dessì potrebbe andarne fiero. Il carnevale, vissuto dappertutto come tempo di gozzoviglie e sregolatezza, qui ad Oristano perpetua il rito dove l'uomo che un tempo era falegname o contadino, e oggi potrebbe essere medico o bancario, dopo il lungo rito della vestizione diventa divinità. Sacro, magico e profano si fondono in questa Sardegna dove il sincretismo è ancora l'unica vera religiosità.

Un tempo non lontano il nome de Su Componidori era segreto, recentemente il rito è pubblico, si fa per dire , in quanto per tradizione la vestizione avviene in casa del presidente del gremio. Lo spazio è poco, l'accesso improbabile, per la vestizione del gremio dei contadini: Ma il gremio dei falegnami dispone di un vasto stazzo, un grande cortile campidanese con i muri in ladiri e tegole in cotto dove avviene la vestizione.

Sa mesitta dove verrà vestito l'ultimo erede dei Campeador è in fondo al cortile, la lolla è addobbata con i tralci a ghirlanda, segno della primavera che avanza. Su Componidori viene vestito su un tavolo, non deve toccare la terra, l'energia del rito verrebbe annullata.

L'uomo seduto su uno scanno viene religiosamente accudito da giovani donne (massaieddas) sotto la supervisione de sa massaia manna. In tutta la cerimonia un ruolo enorme ricoprono i tamburini e i trombettieri, rigorosamente vestiti in costumi medioevali, che sottolineano tutti i momenti della vestizione. La Sartiglia nasce come giostra aristocratica ma l'abbigliamento de Su Componidori non si discosta dall'antico abbigliamento campidanese , la camicia della festa è ornata dai nastri dei colori del gremio, rosa e celeste per i falegnami, ed è completato

2dal collettu . Su collettu è uno dei più antichi indumenti dal vestiario dei sardi, uno lungo indumento di pelle morbida senza maniche, pare che l'unico originale sia quello in possesso del gremio di San Giovanni. L'ambientazione agreste, la camicia e i calzoni del costume sardo su collettu; fino ad ora l'uomo è contadino e falegname, poi gli vengono apposte le bende sul viso. Vestito, ma ancora col viso scoperto, Su Componidori si alza, fa un brindisi col presidente del gremio e coni presenti, il rullare dei tamburi è vorticoso e frastornante .Ora il capocorsa si siede sullo scanno regale, gli viene fissata la maschera , poi il capo è ricoperto dalla mantiglia e infine il cilindro completa la trasformazione di uomo in Dio. Su Componidori si solleva: gli stivali, i calzoni e su collettu non stridono ma sono in armonia con la ricca camicia, la bianca mantiglia, l'aristocratico cilindro. E’ la maschera amimica che ricompone la magia. Essere androgino?Forse. Certamente la maschera assolve il compito di coniugare i riti dei campi e le lontane glorie delle gesta d'arme del giudicato di Eleonora. Questo rito pagano, che inizia il 2 febbraio nella cristiana festa della Candelora, delega all'uomo-dio la magia di un futuro ricco di abbondanza e di prosperità.

Il rullare dei tamburi cessa, la folla immobile resta in religioso silenzio: entra il cavallo, si avvicina alla tavola, Su Componidori sale e si avvia verso il luogo della corsa. Su secundu e su terzu sono i suoi luogotenenti, un centinaio di cavalieri dai costumi bellissimi delle altre contrade di Sardegna compongono la sfilata.

Il rito continua, sotto la stella l'incrocio delle spade tra il Campeador e suoi luogotenenti dà inizio alla gara. La prima corsa alla stella è quella de Su Componidori:la discesa è veloce, la presa sicura, la stella luccica infilzata nella spada, la folla acclama. Le trombe annunciano ogni discesa, i cavalieri sono scelti insindacabilmente dal capocorsa. Tante sono le stelle di quest'anno, sono segno di vita e di prosperità. Sa remada , la pericolosa discesa che Su Componidori fa riverso sul cavallo a briglia sciolta, mentre contemporaneamente benedice la folla con sa pippia ‘e maiu, conclude la giostra. In via Mazzini continua lo spettacolo con le acrobatiche pariglie.

Il martedì grasso chiude il Carnevale. Il Mercoledì delle Ceneri dà inizio alla quaresima. Giovedì, Susanna Camusso a Cagliari, in un Palazzo dei congressi della Fiera gremito da lavoratori sottoccupati e cassaintegrati, annuncia che la disoccupazione in Sardegna è al 54% e ci esorta a non credere a chi ci vuol convincere che potremmo vivere solo di agricoltura e di turismo. Ci invita a chiedere e pretendere infrastrutture ed investimenti per noi e per i nostri figli. Venerdì inizia la via Crucis in attesa della Santa Pasqua. Tra auspici fausti e certezze drammatiche la Sardegna attenda la sua Pasqua di Resurrezione.

Quale futuro per la Sanità Sarda? (di Roberto Prost)

Economia, lavoro, risorse umane, turismo, territorio... Quando si parla del futuro della nostra isola i punti strategici sembrano

chiari e sempre gli stessi. Eppure nello scacchiere del gioco per il potere politico, forse la pedina più importante è quella della sanità. Una pedina che fa girare soldi, tanti soldi, che coinvolge tanti “lavoratori-elettori” e tanti “pazienti-elettori”. Per questo di sanità si parla sempre più spesso in prossimità delle elezioni, e per questo tutte le forze politiche tentano in qualche modo di accaparrarsi un pezzo di una sanità divisa in mille fette.

Tentativi di fare ordine in passato ne abbiamo avuti diversi, con risultati non sempre soddisfacenti. L’ultimo assessore alla sanità che ha portato avanti un tentativo di riforma è stata la Dirindin, ma è difficile valutare il suo lavoro a distanza di tempo, perché risultati sostanziali non sembra che ce ne siano stati. Questioni irrisolte e debiti ereditati sono passati a loro volta in eredità a Liori: da un governo all’altro non ci possiamo aspettare grandi cambiamenti, forse perché non c’è il tempo per realizzarli, o forse perché non c’è la volontà.

Si parlava di riorganizzazione, di chiudere ospedali periferici e aprirne nuovi nei grandi centri urbani, eliminare le prestazioni che appesantivano il pubblico e trasferirle al privato, eleggere alcuni reparti come centri di riferimento per il trattamento di alcune patologie, stringere sulle spese del privato imponendo dei tetti sul budget delle strutture accreditate. Cosa è cambiato?

Non ci sono soldi: non si costruiscono nuovi ospedali, a parte il San Raffaele a Olbia che è privato, non si chiudono i vecchi (non sarebbe possibile!). I reparti di eccellenza ci sono, ma stringono i denti per continuare a mantenere un livello alto assistenziale, mentre le risorse economiche e umane, spesso mal gestite, finiscono dirottate ad alimentare reparti che sembrano baracconi da circo, tutto fuorché reparti di ospedale. Gli ospedali periferici sono aperti, ma nella sostanza ridimensionati al punto che sono iniziati “viaggi della speranza” intraregionali! Troppo pochi parti e si chiude l’ostetricia, male che vada partorisci in ambulanza... Basta poco per rendesi conto che la situazione non è delle più allegre: un giro in corsia con i letti nel corridoio, e il malumore degli infermieri costretti a lavorare in spazi e strutture inadeguate, può essere sufficiente.

La sanità privata, accreditata e convenzionata, non naviga in acque migliori. Anche qui non ci sono soldi e i privati, a cui vengono chieste prestazioni di pari livello con il pubblico, sono costretti a mettere in cassa integrazione i dipendenti.

Sono passati i tempi in cui le Case di Cura convenzionate erano in mano a famiglie i cui rampolli godevano di prestigio e autorità, in un intreccio di stretti rapporti con la politica, di cui potevano influenzare le decisioni. Pirastu, Floris, Corona, Ragazzo, Santa Cruz, chi più chi meno hanno gestito un potere e tanti soldi. Ma qui lo scenario è cambiato. I figli non sempre all’altezza dei genitori, medici illustri ma anche intelligenti amministratori, hanno dovuto fare i conti con

2un sistema che ha lasciato sempre meno spazio all’eccellenza e alla qualità dell’assistenza, per fare posto a logiche di tipo imprenditoriale. Le cliniche non potevano essere gestite come una piccola azienda familiare. Gli ultimi anni lo dimostrano ampiamente: fallimenti (Case di cura Lay e Maria Ausiliatrice) e cessioni a multinazionali (le cliniche di Quartu e San Salvatore di Cagliari) con la promessa di immettere capitali per ristrutturazioni e riorganizzazioni varie. Promesse, appunto. Il risultato è la cassa integrazione per centinaia di dipendenti: operai, uscieri, ausiliari, infermieri professionali, e medici. Tutti coinvolti, non si salva nessuno.

Pubblico e privato sono le due facce della stessa medaglia. Pensando al futuro della sanità in Sardegna bisogna tener conto che le risorse economiche limitate vanno gestite in modo adeguato, cercando di non sbilanciare l’equilibrio precario tra sanità pubblica e privata. Sono scelte politiche: privilegiare l’una o l’altra però ha delle conseguenze importanti, economiche e sociali. Se puntiamo tutto sul pubblico bisogna mettere mano ad una riforma di sostanza che và portata avanti fino in fondo per non correre il rischio di perdere realtà economiche significative che lavorano sul territorio, o di investire soldi in un pozzo senza fondo. Se si dà spazio al privato invece si corre il rischio di completare l’opera di colonizzazione che ormai è già iniziata, e la sanità sarda sarà influenzata dai consigli di amministrazione delle multinazionali estere.

Il ministro della Sanità nella sua ultima visita in Sardegna ci rimproverava di avere troppi posti letto per numero di abitanti. Come? Troppi posti letto? Ma non stiamo per aprire un nuovo ospedale a Olbia?

Dietro le affermazioni del ministro ci potrebbe essere una strategia, un piano non deciso da noi ovviamente, ma che viene dall’alto. Per dare posti letto al San Raffaele, non potendone creare di nuovi (ce ne sono già troppi) bisogna prenderli da qualche parte.

Il Governo ritiene che abbiamo bisogno di RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali). Presto sarà fatto: le cliniche di Cagliari saranno trasformate in RSA, che richiedono meno personale e meno soldi, e i posti letto convenzionati saranno dirottati al San Raffaele a Olbia.

Le prestazioni di un certo livello saranno assegnate a poche strutture private, che si specializzeranno nel trattamento di patologie più remunerative di pazienti benestanti. La scelta della Gallura da parte di Don Verzè appare in questo senso strategica e anche l’idea di trasformare l’ospedale Marino di Cagliari in una clinica per anziani facoltosi non sembra così pazza, del resto un ex albergo trasformato in ospedale può essere ritrasformato in qualcosa di simile ad un residence con piscina, che c’è già, mancano solo un paio di mattonelle.

Questo non è il futuro, questo sta già accadendo. Rimane il fatto che la politica deve decidere se far pendere l’ago della bilancia verso la sanità pubblica o verso quella privata, ma in questo senso forse il governo regionale un’idea precisa c’è l’ha già.

Intanto rimane lo scontento dei cittadini, utenti finali di un sistema che funziona a corrente alternata, e più passa il tempo più necessita di una vera e propria scossa.

Piccolo diario delle primarie (di Filippo Petrucci)

I miei amici di Tramas de Amistade mi ha chiesto di raccontare come sono stati quei 54 giorni che ci hanno visto partecipare alle primarie. È stata una decisione presa con un gruppo di amici e l’abbiamo fatto perché sentivamo che era venuto il momento di impegnarci per la nostra città.

Ma non è stata una decisione avventata né improvvisata: da anni, sia io che gli altri facevamo attività politica, non necessariamente all’interno di partiti ma in movimenti o anche partecipando attivamente a iniziative messe in atto da altre realtà associative.

Nelle prime riunioni abbiamo applicato alcuni metodi di confronto per elaborare i concetti e i principi che ritenevamo più importanti, poi abbiamo provato a creare una lista di problematiche della città di Cagliari, senza fermarci alla critica, ma provando a elaborare delle risposte.

Se all’inizio il gruppo era limitato, ogni giorno arrivavano offerte di partecipazione, persone che chiedevano come avrebbero potuto aiutarci. Lo scoglio da superare per poter soltanto accedere alle primarie è stato quello della raccolta delle firme, 1653, solo per poter partecipare: noi siamo riusciti a raccoglierne 1565 in 23 giorni (dall’otto al trenta dicembre); considerando che nel mezzo ci sono stati i fine settimana e le feste natalizie è stato un ottimo risultato. Firme raccolte da noi, per strada, e firme raccolte dalle tante persone che credevano fosse il momento di dare una scossa al centrosinistra cagliaritano e spontaneamente chiamavano o ci venivano a cercare in piazza. Un momento di partecipazione attiva che ci ha dato un grandissimo aiuto, e per il quale un ringraziamento è doveroso ancora oggi a tutte le persone che si sono attivate. Benché le 1565 firme raccolte non corrispondessero al numero richiesto, tutti i partiti sono stati concordi nel dare il via libera alla partecipazione.

Ottenuta la possibilità di accedere alle primarie, era il momento di proporre un programma capace di contenere in sé principi ma anche proposte pratiche. Ancora una volta abbiamo applicato un metodo partecipativo e aperto: abbiamo

2incontrato associazioni, studenti, professionisti di diversi ambiti, universitari, cittadini cagliaritani e stranieri che vivono a Cagliari; abbiamo raccolto idee e competenze ma anche bisogni e esigenze per creare un programma vero che potesse essere utile alla città.

Non è stato facile provare ad applicare veramente un principio di condivisione, un vero metodo di costruzione democratica di temi e programma ha richiesto molto impegno. Ma il risultato finale è stato molto importante, perché condiviso, perché ragionato, perché costruito veramente insieme. E ogni momento doveva essere arricchente e poteva diventare sempre più denso di significato. E così siamo riusciti a creare un programma (http://petruccisindaco.wordpress.com/programma/) e a partecipare alle primarie, raccogliendo 468 voti, l’8,34%.

Un risultato che ha dimostrato tante cose. Abbiamo dimostrato che partecipare, influire e ridare verve al centrosinistra è possibile. Abbiamo dimostrato che non è vero che destra e sinistra sono uguali: perché il centrodestra mai permetterà che delle vere primarie abbiano luogo, e mai proverebbe a proporre programmi diversi da quello che li contraddistingue ormai da 16 anni (mattone, media e lobby). Abbiamo mostrato a tutti che la politica è difficile e richiede impegno, ma che le persone hanno ancora bisogno e provino ancora gioia nel ritrovarsi per tentare di cambiare in meglio la propria città. Perché Cagliari è di tutti, di quelli che ci sono nati e ci vivono, di quelli che sono dovuti andare a vivere sempre più in là perché non hanno i 5000 euro a m2 che richiedono i padroni del mattone, di quelli che hanno deciso di farne la propria città, di quelli che vorrebbero tornare. E siccome è anche la nostra città, abbiamo deciso che è tempo di toglierla dalle mani di chi la usa solo per farci i suoi affari e restituirla ai suoi abitanti. Noi non ci fermiamo e ci vogliamo provare. Vi aspettiamo, non tardate!

Portovesme s.r.l.: come ti metto in discarica le immondizie tossiche delle industrie europee (di Vincenzo Migaleddu)


Nel 2005 ci fu il referendum contro l'importazione di scorie tossiche a favore delle

“attività” della Porto Vesme s.r.l.: si chiedeva l’abrogazione della legge regionale

n°8/2001 che consente, ancora oggi, l'importazione in Sardegna di scorie

tossiche, qualificandole come materia prima. La legge regionale n°8,infatti,

consente l'introduzione di "(...) rifiuti di origine extra-regionale da utilizzare

esclusivamente quali materie prime nei processi produttivi degli impianti

industriali ubicati in Sardegna e già operanti alla data dell'approvazione delle

legge regionale, non finalizzata al trattamento e dallo smaltimento dei rifiuti".

L’istituzione regionale, allora guidata dal presidente Soru, non spese una lira per

una doverosa campagna di informazione rispetto ai quesiti referendari. La

“congiura del silenzio”, come fu chiamata allora, vedeva uniti sindacati, partiti di

governo e di opposizione che in nome del mantenimento dei “posti di lavoro”

aprivano “secondo legge” le porte della Sardegna all’importazione di rifiuti tossici,

implementando la contraddizione Salute/lavoro che ancora oggi ferisce il nostro

territorio.

In questo clima, il referendum regionale fu abbinato ai due referendum statali

sulla procreazione assistita e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, per i

quali l’allora governo centrale aveva invitato all’astensione, contribuendo ad un

ulteriore “confondimento” e oscuramento dei quesiti proposti.

Nonostante tutto, malgrado anche le spinte della chiesa a disertare le urne

facendo appello alla coscienza religiosa, nei principali centri dell’ isola si sfiorò, e

2in certi casi si raggiunse, il quorum del 33% per il referendum regionale; non nei

piccoli centri, dove la campagna di informazione del comitato No Iscorias non

riuscì sopperire all’assenza di informazione istituzionale.

Nel materiale informativo preparato dal comitato si poteva leggere: “Il 13 gennaio

2004, all'Acciaieria AFV Beltrame di Vicenza, è accaduto di fondere una sorgente

radioattiva finita per cause, ancora non chiarite, tra i rottami in ingresso allo

stabilimento. L'emergenza è scattata quando le emissioni dei forni sono

transitate attraverso il portale di controllo della radioattività, posto all'uscita dallo

stabilimento. La sorgente radioattiva non è stata rilevata all'ingresso perché,

presumibilmente, schermata o sigillata; ma lo è stata solo dopo, quando a

seguito della fusione, si è liberata nei fumi del forno fissandosi alle polveri con

valori molto alti di Cesio 137 riscontrati pari a 25000 bequerel/kg.

Incidenti simili posso essere accaduti in altre acciaierie senza che ne sia

conseguito un comportamento virtuoso di denuncia”.

Le vicende dei Tir contenti fumi di acciaieria bloccati nel porto di Genova o di

questi ultimi individuati a Porto Vemsme prima di entrare in fabbrica, conferma

come fondate fossero le pure espresse dal referendum. A forzare le perplessità

per questo tipo di attività industriali concorse il processo contro i due responsabili

della Portovesme s.r.l., rinviati a giudizio per aver sotterrato abusivamente scarti

industriali tossico/nocivi nelle zone di Settimo San Pietro, Serramanna e nei

sottofondi stradali dell' ospedale di Cagliari, la cui prossima udienza si terrà il

giorno 8 febbraio, presso il palazzo di giustizia di Cagliari. Gli unici a non

preoccuparsi di ciò che accade sono i nostri amministratori regionali che, in

quanto tali, si guardano bene, forse per problemi di equilibrio politico personale,

dal seguire la preoccupante evidenza dei fatti che porrebbe in discussione

accordi pregressi: per esempio, quello di programma Regione-P.Vesme srl per

300 mil di euro, già firmato dalla giunta Soru durante la sua campagna elettorale

e arricchito, in seguito, con i benefits dell'eolico della giunta Cappellacci. Non

solo il Sulcis, ma anche Sarroch, Ottana, Porto Torres, Quirra e altre

costituiscono le diciotto aree industriali, militari e minerarie dove un male inteso

senso di sviluppo ha creato povertà, malattie e un forte degrado ambientale. Il

quindici maggio voteremo per dire Si contro l’ipotesi di costrizione di centrali

nucleari nella nostra terra: può essere, quella, un’occasione per affermare il

diritto dei Sardi ad una “soverania ambientale” e ad uno sviluppo sostenibile che

stia alla base di un progetto in sintonia con il futuro dei nostri figli.

L’indipendenza che non fa paura.

... Se chiedete ai cittadini sardi: "Siete favorevoli alla piena sovranità della Sardegna?", tutti vi risponderanno di sì. Se chiedete: "Volete l'autodeterminazione del popolo sardo?", avrete una risposta unanimemente af- fermativa. E quando precisate che cosa si intenda per sovranità e autodeterminazione, la risposta è inequivocabile: "Vogliamo che i sardi si governino da sé, nella piena responsabilità delle proprie scelte". Insomma la gente non fa sottili distinzioni giuridiche fra indipendenza, sovranità, autodeterminazione: sono termini che in concreto vengono ricondotti a un medesimo significato.

Eppure se alle stesse persone chiedete: "Siete favorevoli all'indipendenza della Sardegna?", la domanda fa problema, qualcosa si mette di traverso. Le risposte diventano ambigue e cominciano a porre dei distinguo, con precisazioni e con attenuazioni. Evidentemente la parola indipendèntzia crea allarme, sospetto, innesca associazioni mentali negative o comunque destabilizzanti. Ma perché piena sovranità e autodeterminazione non fanno problema e vengono benevolmente accettate? E dunque, perché indipendèntzia da parola di speranza si trasforma in parola di paura, da parola di libertà diventa disordine e persino terrorismo? Eppure indipendèntzia vuol dire liberazione da uno stato di dipendenza. In senso specificatamente politico è l'atto che sancisce, con una propria costituzione, l'autogoverno, senza ingerenze esterne. Popolo sardo sovrano, nazione sarda sovrana. Ma allora perché piena sovranità è liberante, augurante e invece indipendèntzia è allarmante, inquietante?

Ci sono almeno due spiegazioni. La prima è questa: indipendèntzia viene associata a separatismo: un fantasma lacerante che indica la separazione di una parte dall'intero. Rimarca un distacco, uno strappo violento, psi- cologicamente rimanda a una perdita che alimenta il fantasma dell'abbandono, della solitudine e della insicurezza. Uno sgomento che si manifesta nelle espressioni: ce la faremo da soli? Si tratta di un fantasma molto potente perché pone una domanda estrema, esistenziale: come faremo a sopravvivere?

Il fatto è che una lunga dipendenza ha creato la psicologia della sudditanza che, seppure sofferta e osteggiata, continua a offrire una certa garanzia di sopravvivenza e che però ci impedisce di camminare con le nostre gambe.

In verità indipendèntzia non è separatismo, al contrario instaura una nuova relazione paritaria. Nonc’è violenza, c'è un nuovo contratto, senza sudditanza ed egemonia, nel rispetto reciproco e con pari dignità. Non c'è la metafora corporea di uno strappo che sanguina: pacificamente la Sardegna decide la sua sovranità.creando un nuovo rapporto tra due Stati sovrani, all'interno di una comune appartenenza all'Europa.

Il secondo aspetto negativo sarebbe il carattere violento della lotta, tipico dei movimenti indipendentisti e non solo di Europa. Così nasce la paura degli attentati e delle bombe, l'insicurezza e la conflittualità permanente e persino i costi umani di vittime innocenti. Nulla di tutto ciò.

Pro s'indipendèntzia è costitutivamente pacifica sia come scelta etica di pratica di vita, sia come radicamento e conferma di principi democratici: il rispetto della maggioranza che ha diritto di governare. Se gli indipendentisti sono minoranza, non possono e non devono imporre, in nessun modo, la volontà su una maggioranza che è legittimamente contraria. Si tratta di far valere la bontà delle loro tesi e mostrare alla gente la qualità dei loro programmi, ma se il popolo sardo, nella sua maggioranza, non vuole l'indipendenza, è giusto che non ci sia l'indipendenza. Chi impone con le armi, con le intimidazioni, le proprie idee crede nel separatismo armato che è proprio il contrario dell'indipendenza.

Ma bisogna fare ancora un passo avanti. Nell'orizzonte dell'indipendenza della Sardegna deve scomparire persino il concetto di nemico, finisce quella logica contestativa del periodo autonomistico che ci ha logorato in battaglie sempre frustranti e che ci ha abituato al bisogno di avere sempre un avversario di fronte.

Occorre dunque restituire alla parola indipendèntzia il suo preciso significato politico ed etico, per liberarla da tutte le incrostazioni e attribuirle i valori di libertà, di democrazia, in modo che entri nel dibattito politico pubblico per quello che è effettivamente. E cioè: da una parte dichiarazione del popolo sardo a esercitare la sua piena sovranità e a specificarla nella forma di una costituzione, dall' altra parte attuazione di un nuovo patto con i cittadini nella forma di una democrazia partecipata, con dispositivi di controllo, nuovi rapporti con le autonomie locali che costituiscono la base democratica della partecipazione popolare, con una forte accentuazione di comunità politica a gestione responsabile.

La parola indipendèntzia non è ideologica né disciplinare né confessionale. Nessuno la possiede, nessuno l'amministra. Non appartiene a un codice corporativo: ciascuna persona parlando e ascoltando ne intende il valore di libertà nella sua pratica attuazione.

Oggi in Sardegna c'è un parlare disperso, fatto di sfiducia e risentimento: un rimuginare in privato, un chiacchiericcio di gruppi che non diventa opinione pubblica come consapevolezza di propositi e decisioni collettive. Si vive un tempo di depressione e di scetticismo. Una esperienza di crisi vissuta dentro la famiglia e la comunità, dentro la fabbrica e dentro la scuola, nella bottega artigiana e nella piccola impresa, nei campi della pastorizia e dell' agricoltura. C'è la consapevolezza di essere frenati, condizionati, impediti, per cui non riusciamo a valorizzare pienamente le nostre risorse materiali e umane. Per chi crede nell'indipendenza, la coscienza della crisi non è motivo di scoraggiamento, anzi è un dispositivo per avviare il cammino del rinnovamento. Ciascuno di noi, nell' operare comune, ha risorse per cambiare le cose. La Sardegna è attanagliata da gravi problemi ma ha capacità di risolverli perché ha importanti decisioni da prendere: le scelte migliori sono quelle fatte insieme.

(Bachisio Bandinu)

Marchionne - Fabbrica Italia

Marchionne – Fabbrica Italia

Ha destato non poche perplessità, tra i più, il giudizio espresso (successivamente rientrato) dal nostro Presidente del Consiglio in cui si condivideva l’ipotesi, ventilata dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, di dirottare all’estero gli investimenti previsti dal piano industriale di Fabbrica Italia, per lo stabilimento di Mirafiori.

Ciò nella malaugurata ipotesi che l’accordo sul nuovo contratto di lavoro del 23 dicembre2010, sottoscritto solo da alcune delle confederazioni sindacali più rappresentative, ma non dalla Fiom – Cgil, non fosse stato ratificato dalla maggioranza degli oltre cinquemila dipendenti nel referendum indetto per i giorni del 13 e 14 gennaio.

A risultato acquisito, che ha visto il prevalere dei favorevoli al nuovo contratto e di conseguenza, se i patti saranno mantenuti, salvati gli investimenti, ci si deve interrogare se tali decisioni avranno, sul sistema delle relazioni industriali e del sistema paese in generale, delle ripercussioni.

Non bisogna dimenticare, infatti, che l’impresa va considerata come una “istituzione a finalità plurime” e non come una iniziativa imprenditoriale rivolta esclusivamente alle finalità economiche dell’investitore proprietario.Essa rappresenta un sistema economico e sociale a cui partecipa una pluralità di attori guidata in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi economici e responsabilità sociale.

La rilevanza sociale dell’impresa cresce in rapporto alle ricadute esercitate sul contesto in cui opera (ricadute occupazionali, d’investimento, di mercato, di partecipazione alla vita della comunità, ecc.) mentre quell' economica si lega alla ricchezza creata con la sua attività.

Tale circostanza non dovrebbe sfuggire al nostro Presidente, per aver egli ricoperto il ruolo di imprenditore, prima di dedicare il suo impegno alla politica, e al governo del Paese.

Quanto all’accordo sul nuovo contratto, che la dimensione tecnologica impone alla nuova organizzazione del lavoro, c'è da ritenere che sarà sicuramente fonte di ulteriori conflitti ed inciderà fortemente sulle relazioni industriali. Esso dovrà, infatti, da un lato, cercare una conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita dei lavoratori, dall’altro fare i conti con una globalizzazione che costringe le imprese a cercare di restare competitive sul piano del costo del lavoro. Posizionandosi, quindi, sui mercati del lavoro a più bassi salari, ma allo stesso tempo cercando di attrarre, trattenere e motivare le persone con le migliori competenze.

Ciò può determinare un aumento dei differenziali retributivi che di solito genera nei soggetti problemi di equità che possono mettere in discussione gli equilibri sociali.

L’altro aspetto riguarda la strategia complessiva di sviluppo dimensionale con cui Marchionne si pone l’obiettivo di ottimizzare l’uso delle risorse aziendali e di acquisire una crescente forza nei confronti dei portatori di interesse (stakeholder) sia interni che esterni.

La Fiat che per anni ha perseguito con sistematicità la strategia di espansione internazionale si trova ora, grazie all’accordo di cooperazione con la Chraysler ma anche alla qualità del management aziendale e alla disponibilità di capitali propri, o convenientemente reperiti nel mercato finanziario internazionale, nelle condizioni di perseguire una gestione integrata delle attività domestiche ed estere che insieme all’organizzazione d'impianti di produzione e di reti di distribuzione in più Paesi del mondo, conferiscono alla stessa una dimensione multinazionale.

Questa nuova situazione influirà certamente sulle motivazioni che possono guidare il comportamento del gruppo imprenditoriale nell’attuazione della gestione.

Marchionne si trova ora nella doppia condizione di dover conciliare gli interessi di una public company a capitale fortemente frazionato e caratterizzata da una netta separazione tra proprietà e controllo (Chraysler) ed una società che è ancora espressione di un capitalismo familiare con una forte concentrazione del capitale, che attraverso il sindacato di voto detiene la maggioranza assembleare (Fiat). Deve quindi, da un lato, garantire risultati aziendali sempre migliori per soddisfare le attese degli investitori americani, adottando comportamenti tendenti a creare e diffondere valore per difendere l’azienda da eventuali scalate ostili, dall’altro a massimizzare le potenzialità reddituali dell’impresa nel lungo periodo per la famiglia Agnelli.

Ultimo aspetto nella logica della gestione multinazionale che può avere delle ricadute negative per il nostro paese e che queste imprese, attraverso la politica dei prezzi interni di trasferimento, riescono a trasferire il valore creato con la gestione in quei paesi in cui ritengono d'avere maggiori vantaggi, anche in termini fiscali. Sotto quest'aspetto l’elevata pressione fiscale che si registra in Italia non aiuta.

(Dante Zaru)